Parte primaGli atti mancati> |
Lezione 1. IntroduzioneSignore e signori, non so quanto ognuno di voi conosca della psicoanalisi dalle sue letture o per sentito dire. Sono però obbligato dal tenore letterale del programma annunciato - Introduzione elementare alla psicoanalisi - a trattarvi come se non sapeste nulla e aveste bisogno di un primo insegnamento. Sono legittimato a supporre tuttavia che sappiate che la psicoanalisi è un procedimento per il trattamento medico di malati di nervi e in proposito posso darvi subito un esempio di come in questo ambito molte cose vadano diversamente - spesso in modo del tutto opposto - che nella medicina in genere. Quando in altri ambiti sottoponiamo un malato a un trattamento medico nuovo per lui, ne sminuiamo gli aspetti negativi e gli facciamo rassicuranti promesse sull'esito positivo del trattamento. Intendo dire che siamo autorizzati a farlo perché in tal modo aumentiamo le probabilità di successo. Ma quando sottoponiamo un nevrotico a un trattamento psicoanalitico ci comportiamo diversamente. Gli presentiamo le difficoltà del metodo, la sua lunga durata, gli sforzi e il sacrificio che richiede, e per quanto concerne il risultato, diciamo che non glielo possiamo garantire con sicurezza, dipende dal suo impegno, dalla sua comprensione, dalla sua arrendevolezza, dalla sua perseveranza. Naturalmente per comportarci in modo apparentemente così diverso dal normale abbiamo buoni motivi, di cui forse in seguito potrete farvi un'idea. Non ve la prendete dunque se inizialmente vi tratterò come questi malati nevrotici. In realtà vi sconsiglio di venire ad ascoltarmi una seconda volta. Con tale intenzione vi presenterò le imperfezioni che gravano necessariamente sull'insegnamento della psicoanalisi e le difficoltà che si oppongono all'acquisizione da parte vostra di un personale giudizio in proposito. Vi mostrerò come l'intera direzione della vostra precedente formazione e tutte le vostre abitudini di pensiero debbano inevitabilmente rendervi nemici della psicoanalisi, e quanto avrete da superare in voi stessi per vincere questa istintiva avversione. Naturalmente non posso prevedere ciò che ricaverete per la comprensione della psicoanalisi dalle mie comunicazioni, ma posso assicurarvi che il loro ascolto non vi insegnerà a intraprendere uno studio o un trattamento psicoanalitico. Se però tra di voi vi dovesse essere qualcuno che non si sentisse soddisfatto di una tale conoscenza fugace della psicoanalisi, ma volesse entrare in una relazione durevole con essa, non solo glielo sconsiglierei, ma lo metterei in guardia dal farlo. Per come stanno le cose attualmente con una tale scelta professionale egli si distruggerebbe qualsiasi possibilità di successo universitario, e se scegliesse di vivere come medico praticante si troverebbe in una società che non comprende i suoi sforzi, che tratta con diffidenza e in modo ostile chi li compie, e gli scatena contro tutti gli spiriti maligni che si annidano in essa. Forse proprio i fenomeni concomitanti della guerra che oggi infuria in Europa riescono a darvi un'idea di quanto possano essere numerosi questi spiriti maligni. Vi è comunque un certo numero di persone per le quali tutto ciò che può diventare un nuovo oggetto di conoscenza conserva, nonostante tali disagi, la sua attrazione. Se alcuni di voi appartenessero a questo genere di persone e, noncuranti dei miei avvertimenti, dovessero ripresentarsi qui la prossima volta, saranno i benvenuti. Ma voi tutti avete il diritto di venire a conoscenza di quali siano le difficoltà della psicoanalisi a cui ho accennato. In primo luogo le difficoltà della formazione, dell'insegnamento della psicoanalisi. Nelle lezioni di medicina siete stati abituati a guardare. Osservate il preparato anatomico, il precipitato nella reazione chimica, l'accorciamento del muscolo come risultato della stimolazione dei suoi nervi. In seguito vengono presentati ai vostri sensi il malato, i sintomi della sua sofferenza, i prodotti del processo di malattia, e in numerosi casi gli agenti patogeni che sono stati isolati. Nelle materie di chirurgia siete testimoni degli interventi con i quali si offre aiuto al malato e avete la possibilità di tentare di eseguirli in prima persona. Persino nella psichiatria ciò che il malato manifesta nella sua mimica facciale alterata, nel suo modo di parlare e nel suo comportamento, vi procurano una quantità di osservazioni che lasciano in voi impressioni profonde. Così il docente di medicina svolge prevalentemente il ruolo di una guida e di un commentatore che vi accompagna in un museo, mentre voi potete avere una relazione immediata con gli oggetti e credete di esservi convinti dell'esistenza di fatti nuovi grazie alla vostra percezione. Purtroppo le cose stanno diversamente in psicoanalisi. Nel trattamento analitico non accade nient'altro che uno scambio di parole tra l'analizzato e il medico. Il paziente parla, racconta esperienze del passato e impressioni del presente, si lamenta, riconosce i propri desideri e impulsi emotivi. Il medico ascolta, cerca di guidare i processi di pensiero del paziente, lo esorta a spingere la sua attenzione in determinate direzioni, gli fornisce spiegazioni e osserva le reazioni di comprensione o di rifiuto che in tal modo suscita nel paziente. I parenti incolti dei nostri pazienti - i quali vengono impressionati solo da ciò che è visibile e tangibile, di preferenza azioni simili a quelle che si vedono al cinematografo - non perdono occasione di esprimere i propri dubbi che «si possa fare qualcosa contro la malattia solo parlando». Questo è naturalmente un modo di pensare ottuso e incoerente. Quelle stesse persone sono altrettanto sicure che i malati «s'immaginano semplicemente» i loro sintomi. Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice un altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l'insegnante trasmette il suo sapere agli studenti, con le parole l'oratore trascina l'uditorio con sé e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente. Non disdegneremo dunque l'utilizzo delle parole nella psicoterapia e saremo contenti di poter ascoltare le parole che vengono scambiate tra analista e paziente. Ma neppure questo ci è possibile. Il colloquio in cui consiste il trattamento analitico non ammette ascoltatori; non può essere dimostrato. Naturalmente anche un nevrastenico o un isterico può essere presentato agli studenti in una lezione di psichiatria. Egli allora potrà raccontare i suoi patimenti e i suoi sintomi, ma nient'altro. Il paziente comunica ciò di cui l'analisi ha bisogno solo a condizione che vi sia un particolare legame emotivo con il medico; egli si ammutolirebbe non appena notasse un solo testimone a lui indifferente. Infatti, tali comunicazioni riguardano la parte più intima della sua vita psichica, tutto ciò che, in qualità di persona socialmente indipendente, deve celare davanti agli altri, e inoltre tutto ciò che, reputandosi una personalità unitaria, non vuole confessare a se stesso. Voi dunque non potete assistere a un trattamento psicoanalitico. Potete soltanto sentirne parlare e imparerete a conoscere la psicoanalisi, in senso stretto, solo per sentito dire. Con questo insegnamento, in un certo senso di seconda mano, vi troverete in condizioni molto inusuali per formarvi un giudizio. Dipenderà chiaramente per la maggior parte dalla fiducia che riponete sul docente. Supponete per un attivo che non vi siate recati a una lezione di psichiatria, ma a una lezione di storia e il relatore vi narri la vita e le imprese militari di Alessandro Magno. Quale motivo avreste per credere alla verità delle sue comunicazioni? A prima vista la situazione sembra essere ancora più sfavorevole che nel caso della psicoanalisi poiché il professore di storia, così come voi, non ha certo partecipato alle spedizioni di Alessandro; lo psicoanalista invece vi parla quanto meno di situazioni in cui egli stesso ha svolto un ruolo. Ma allora si tratta di capire ciò che conferisce credibilità allo storico. Egli vi può rinviare alle narrazioni di antichi scrittori che furono o contemporanei, o vissero in un periodo di tempo immediatamente vicino agli avvenimenti in questione, ai libri dunque di Diodoro, Plutarco, Arriano e altri; può mostrarvi riproduzioni delle monete e delle statue del re che sono state conservate, e da quella serie di immagini può permettervi di vedere da vicino una fotografia del mosaico pompeiano della battaglia di Isso. Ma, a rigore, tutti questi documenti dimostrano soltanto che generazioni passate hanno creduto all'esistenza di Alessandro e alla verità delle sue imprese, e a questo punto la vostra critica potrebbe riproporsi. Troverete allora che non tutto ciò che è stato riferito su Alessandro è credibile od è dimostrabile nei dettagli, ma non posso ritenere che per tale motivo lascerete l'aula dubitando dell'esistenza di Alessandro Magno. La vostra decisione sarà determinata principalmente da due considerazioni. In primo luogo, non vi è alcun motivo plausibile per cui il relatore vi debba presentare come vero qualcosa che non ritiene tale e, in secondo luogo, tutti i libri di storia in circolazione presentano gli eventi in modo all'incirca simile. Se quindi vi addentrate nell'esame delle fonti più antiche, prenderete in considerazione gli stessi fattori, ossia i possibili motivi che hanno spinto i relatori a raccontare e la concordanza delle testimonianze. Nel caso di Alessandro il risultato dell'esame sarà sicuramente rassicurante, probabilmente andrà diversamente nel caso di personalità come Mosè o Nembrod. Per quanto concerne invece i dubbi che potete sollevare riguardo alla credibilità del vostro relatore psicoanalitico, avrete modo in seguito di riconoscerli abbastanza chiaramente. Ora avete il diritto di domandare: se non esiste alcuna legittimazione oggettiva della psicoanalisi né alcuna possibilità di dimostrare le sue tesi, come si può imparare la psicoanalisi e convincersi della verità delle sue concezioni? Tale apprendimento non è affatto semplice e infatti sono poche le persone che abbiano appreso la psicoanalisi nel modo giusto, ma comunque vi è naturalmente una via praticabile. La psicoanalisi s'impara innanzitutto su se stessi, mediante lo studio della propria personalità. Ciò non è esattamente quello che si chiama autosservazione [Selbstbeobachtung], ma all'occorrenza può essere così sintetizzato. Esiste un'intera serie di fenomeni psichici molto frequenti e generalmente noti che dopo un certo apprendimento della tecnica possono essere resi oggetto di analisi sulla propria persona. In tal modo ci si convince della realtà dei processi descritti dalla psicoanalisi e della verità delle sue tesi. Tuttavia sono posti determinati limiti al procedere in questa direzione. Si progredisce molto di più se ci si fa analizzare da un analista esperto in modo da sperimentare gli effetti dell'analisi sul proprio Io e cogliere con ciò la possibilità di carpire all'analista la tecnica più sottile del procedimento. Tale procedimento eccellente è praticabile naturalmente soltanto da una singola persona per volta e non da un intero corso. Riguardo a una seconda difficoltà nel vostro rapporto con la psicoanalisi non posso ritenere responsabile quest'ultima, ma voi, miei ascoltatori, quanto meno quelli di voi che finora hanno esercitato studi di medicina. La vostra precedente formazione ha conferito alla vostra attività di pensiero una determinata direzione che conduce lontano dalla psicoanalisi. Siete stati istruiti a giustificare le funzioni dell'organismo e i suoi disturbi dal punto di vista anatomico, a spiegarli dal punto di vista chimico e fisico, a comprenderli biologicamente, ma nessuna parte del vostro interesse è stata rivolta alla vita psichica in cui culmina l'attività di questo organismo magnificamente complicato. Perciò vi è rimasto estraneo un modo di pensare psicologico e siete stati abituati a considerarlo con diffidenza, a disconoscergli il carattere della scientificità e a lasciarlo ai profani, ai poeti, ai filosofi della natura e ai mistici. Tale limitazione è di certo un danno per la vostra attività medica, perché il malato vi si presenta, come di regola accade in tutte le relazioni umane, innanzitutto secondo il suo aspetto psicologico e io temo che sarete costretti, per punizione, a lasciare una parte dell'influenza terapeutica che perseguite a coloro che più disprezzate, i medici dilettanti, gli artisti della guarigione naturale e i mistici. Riconosco quale sia la giustificazione che può essere fatta valere per questa mancanza nella vostra preparazione. Manca una scienza ausiliaria filosofica che possa essere d'aiuto per i vostri propositi medici. Né la filosofia speculativa, né la psicologia descrittiva, o la cosiddetta psicologia sperimentale collegata alla fisiologia degli organi sensoriali, così come sono insegnate nelle scuole, sono in grado di dire qualcosa di utile sulla relazione tra il corporeo e lo psichico e di consegnarvi le chiavi per la comprensione di un possibile disturbo delle funzioni psichiche. Nell'ambito della medicina la psichiatria si occupa di descrivere i disturbi psichici osservabili e dì riunirli in quadri clinici, ma nei momenti buoni gli psichiatri stessi dubitano di poter dare il nome di una scienza alle loro enunciazioni puramente descrittive. I sintomi che compongono tali quadri clinici sono sconosciuti per quel che concerne la loro origine, il loro meccanismo, i loro collegamenti reciproci; ad essi non corrisponde alcuna alterazione dimostrabile dell'organo anatomico della psiche o vi corrispondono alterazioni di cui non si può trovare una spiegazione. Tali disturbi psichici dunque sono accessibili a un influsso terapeutico solo quando possono essere riconosciuti come effetti collaterali di una qualsiasi altra affezione organica. Questa è la lacuna che la psicoanalisi si sforza di colmare. Essa vuole dare alla psichiatria il fondamento psicologico che le manca, spera di scoprire il terreno comune a partire dal quale divenga comprensibile il concorso del disturbo fisico con quello psichico. A questo scopo la psicoanalisi deve tenersi libera da qualsiasi presupposto di natura anatomica, chimica o fisiologica che le è estraneo, deve lavorare assolutamente con concetti ausiliari di natura puramente psicologica e proprio per questo temo che inizialmente vi apparirà estranea. Per quanto riguarda la prossima difficoltà non voglio rendere corresponsabili la vostra precedente formazione o il vostro atteggiamento. Con due delle sue enunciazioni la psicoanalisi offende il mondo intero e se ne attira l'avversione; una di esse contravviene a un pregiudizio intellettuale, l'altra a un pregiudizio estetico-morale. Non dobbiamo pensare che questi pregiudizi siano insignificanti. Sono potenti, sono sedimenti di evoluzioni utili, anzi necessarie, dell'umanità. Sono conservati da forze affettive e la lotta contro di essi è difficile. Secondo la prima di queste spiacevoli tesi della psicoanalisi i processi psichici [seelischen Vorgänge] sono inconsci [unbewußt] in sé e per sé e sono coscienti solo singoli atti e parti dell'intera vita psichica. Rammentate che, al contrario, siamo abituati a identificare lo psichico con il conscio. Consideriamo la coscienza proprio il carattere che definisce lo psichico; la psicologia viene ritenuta la teoria dei contenuti della coscienza. Tale equiparazione ci appare così ovvia che una qualsiasi obiezione nei suoi confronti viene da noi avvertita come un'assurdità evidente, e però la psicoanalisi non può fare a meno di sollevare tali obiezioni, non può accettare l'identità tra ciò che è cosciente e lo psichico. Secondo la sua definizione, lo psichico [seelischen] è costituito da processi del sentire, del pensare, del volere e la psicoanalisi deve sostenere che ci sono pensieri inconsci e un volere inconsapevole. Con ciò però la psicoanalisi si è giocata da subito la simpatia di tutti i sostenitori dell'obiettività scientifica e sì è attirata il sospetto di essere una bizzarra dottrina occulta che vorrebbe costruire nell'oscurità e pescare nel torbido. Ma voi, miei uditori, non potete naturalmente comprendere ancora con quale diritto io possa spacciare per pregiudizio una proposizione di natura così astratta come: «Lo psichico è ciò che è cosciente», e neppure potete indovinare quale sviluppo abbia potuto portare a rinnegare l'inconscio, ammesso che un tale inconscio esista, e quale vantaggio abbia potuto arrecare questo rinnegamento. Se si debba far coincidere lo psichico con ciò che è cosciente o estenderlo al di là di esso, suona come una vuota disputa verbale, e invece vi posso assicurare che ammettendo l'esistenza di processi psichici inconsci si è dato corso a un decisivo nuovo orientamento nel mondo e nella scienza. Né potete immaginare l'intimo legame che unisce questa prima audacia della psicoanalisi alla seconda di cui sto per parlarvi. Quest'altra tesi che la psicoanalisi proclama come una delle proprie scoperte afferma infatti che quei moti pulsionali [Triebregungen], che possono essere definiti soltanto come sessuali in senso stretto o in senso lato, svolgono un ruolo immensamente grande e finora non sufficientemente apprezzato nella causazione delle malattie nervose e mentali. E inoltre secondo tale tesi gli stessi impulsi sessuali partecipano, e per giunta in misura non trascurabile, alle più alte creazioni culturali, artistiche e sociali dello spirito umano. Secondo la mia esperienza, l'avversione contro questo risultato della ricerca psicoanalitica è la causa più importante della resistenza contro cui essa si è scontrata. Volete sapere come ce lo spieghiamo? Riteniamo che la civiltà si sia creata sotto lo stimolo di necessità vitali a spese del soddisfacimento pulsionale e che in gran parte essa venga continuamente ricreata, poiché il singolo, al momento di fare il suo primo ingresso nella società, ripete il sacrificio del soddisfacimento pulsionale a favore della comunità. Tra le forze pulsionali così utilizzate, quelle degli impulsi sessuali svolgono un ruolo significativo, esse vengono sublimate, cioè distolte dalle loro mete [Zielen], e orientate verso scopi socialmente superiori, non più sessuali. Ma questa costruzione è labile, le pulsioni sessuali sono mal dominate, in ogni individuo che deve prendere parte all'opera di civilizzazione è presente il pericolo che le sue pulsioni sessuali rifiutino tale impiego. La società crede che non vi sia minaccia più forte alla sua civiltà di quella che risulterebbe dalla liberazione delle pulsioni sessuali e dal loro ritorno alle mete originarie. La società dunque non ama che le si rammenti questa parte spinosa del suo fondamento, non ha alcun interesse che sia riconosciuta la forza delle pulsioni sessuali e che sia chiarita l'importanza della vita sessuale per il singolo; piuttosto essa ha intrapreso la strada - con intento educativo - di distogliere l'attenzione da tutta questa materia. Per questo non tollera il risultato appena menzionato della ricerca psicoanalitica, vorrebbe più di tutto marchiarlo come esteticamente ripugnante, moralmente riprovevole o come pericoloso, ma con tali obiezioni non è possibile in alcun modo recar danno a un risultato che si presume obiettivo del lavoro scientifico. L'obiezione deve essere trasferita sul piano intellettuale se vuol farsi sentire. Ebbene, è proprio della natura umana essere incline a ritenere non vero ciò che non piace ed è facile trovare argomenti contrari. La società rende dunque non vero ciò che è spiacevole, contesta le verità della psicoanalisi con argomenti logici e oggettivi, ma provenienti da motivazioni affettive, e tiene ferme tali obiezioni come pregiudizi contro tutti i tentativi di confutazione. Tuttavia ci è lecito affermare, signore e signori, che nella formulazione di questa tesi criticata non abbiamo seguito assolutamente alcun orientamento. Volevamo soltanto presentare un dato di fatto che ritenevamo di aver individuato grazie a un lavoro faticoso. Pretendiamo ora anche il diritto di respingere assolutamente l'intromissione di tali considerazioni pratiche nel lavoro scientifico, ancora prima di aver verificato se il timore che vuole dettarci tali considerazioni sia o meno giustificato. Queste sono solo alcune delle difficoltà che affronterete occupandovi di psicoanalisi. Come inizio è forse più che sufficiente. Se riuscite a superare l'impressione che vi hanno fatto, potremo proseguire. Lezione 2. Gli atti mancatiSignore e signori, non cominciamo con presupposizioni, ma con un'analisi. Come oggetto sceglieremo determinati fenomeni che sono molto frequenti, molto noti, e altrettanto trascurati, fenomeni che non hanno nulla a che fare con malattie poiché possono riscontrarsi in ogni persona sana. Sono i cosiddetti atti mancati [Fehlleistungen] dell'uomo, come quando qualcuno vuole dire qualcosa e al suo posto dice un'altra parola, il lapsus verbale [Versprechen],o quando lo stesso accade nello scrivere, sia che ce ne accorgiamo o meno; oppure quando si legge diversamente qualcosa da come è scritto su una pagina stampata o su un manoscritto, il lapsus di lettura [Verlesen],o anche quando si capisce in modo errato qualcosa che viene detto, il lapsus di ascolto [Verhoren], naturalmente in assenza di un disturbo della capacità uditiva. Un'altra serie di tali fenomeni ha alla base una dimenticanza non durevole, ma momentanea, ad esempio quando non si riesce a trovare un nome che pure si conosce e si ricorda regolarmente, o quando si dimentica di attuare un proposito, che però in seguito viene ricordato, e che dunque si era dimenticato solo per un determinato momento. In una terza serie di casi manca questa condizione della temporaneità, ad esempio nello smarrire [Verlegen], quando si ripone un oggetto in un posto qualsiasi e non si riesce più a ritrovarlo, o nel caso assolutamente analogo del perdere [Verlieren]. Vi è qui una dimenticanza che è trattata diversamente da altre dimenticanze, nei confronti della quale ci si stupisce o ci si arrabbia, invece di trovarla comprensibile. A ciò si collegano determinati errori [Irrtumer], nei quali ricompare l'elemento della temporaneità, in quanto per un certo periodo di tempo si crede qualcosa che però prima o poi si sa essere diversa, e una quantità di fenomeni simili con nomi diversi. Tutti questi sono accadimenti la cui intima affinità è espressa [in tedesco] dallo stesso prefisso ver, quasi tutti sono irrilevanti, la maggior parte di essi sono di natura fugace e non hanno molto significato nella vita degli uomini. Soltanto raramente un atto mancato, come la perdita di oggetti, assume una certa importanza pratica. Anche per questo essi non sono oggetto d'attenzione, suscitano solo deboli affetti ecc. Voglio dunque ora richiamare la vostra attenzione su questi fenomeni. Ma voi replicherete indignati: «Esistono tanti enigmi immensi sia nel mondo esterno che in quello più ristretto della vita psichica, tanti fenomeni prodigiosi nel campo dei disturbi psichici che richiedono e meritano una spiegazione, che sembra realmente arbitrario sprecare lavoro e interesse per tali inezie. Se potesse farci comprendere come mai un uomo con occhi e orecchie sani possa vedere e udire in pieno giorno cose che non esistono, perché un altro improvvisamente si ritenga perseguitato da coloro che fino a quel momento gli erano più cari, o con le motivazioni più acute sostenga idee deliranti che perfino un bambino troverebbe assurde, allora terremmo in una certa considerazione la psicoanalisi, ma se questa non può far altro che occuparsi del perché un oratore dice una volta una parola per un'altra, o del perché una casalinga abbia dimenticato le chiavi e inezie simili, allora sapremo impiegare il nostro tempo e il nostro interesse con qualcosa di meglio». Io vi risponderei: un momento, signore e signori, ritengo che la vostra critica non sia nella giusta direzione. È vero che la psicoanalisi non può vantarsi di non aver mai avuto a che fare con inezie. Al contrario, normalmente proprio quegli avvenimenti poco appariscenti costituiscono la sua materia d'osservazione, avvenimenti che vengono messi da parte come troppo insignificanti dalle altre scienze, gli scarti [Abhub] per così dire del mondo dei fenomeni. Ma nella vostra critica non confondete l'importanza del problema con la vistosità delle sue manifestazioni? Non esistono cose molto importanti che possono rivelarsi in determinate condizioni e in certi momenti soltanto mediante indizi del tutto deboli? Potrei citarvi con facilità molte situazioni di questo genere. In base a quali indizi insignificanti deducete - mi rivolgo ai giovanotti tra voi - di aver conquistato la simpatia di una signora? Vi aspettate una dichiarazione d'amore esplicita, un abbraccio appassionato o non vi sono sufficienti uno sguardo che altri non noterebbero, un movimento fugace, una stretta di mano prolungata per un secondo? E se in qualità di investigatori doveste partecipare alle indagini su un assassinio, vi aspettereste realmente dì scoprire che l'assassino ha lasciato sul luogo del delitto la sua fotografia unitamente al suo indirizzo, o non vi accontentereste necessariamente delle tracce più deboli e incerte? Non sottovalutiamo dunque i piccoli indizi, forse a partire da essi riusciremo a giungere sulle tracce di qualcosa di più importante. D'altra parte penso come voi che i grandi problemi del mondo e della scienza abbiano diritto per primi al nostro interesse. Ma il più delle volte serve ben poco riproporsi di dedicarsi allo studio di questo o quel grande problema. Spesso inoltre non si sa in quale direzione procedere. Nel lavoro scientifico è più proficuo incominciare con ciò che si ha di fronte e per la cui indagine si delinea una strada. Se lo si fa in modo molto scrupoloso, liberi da preconcetti e aspettative, e si ha fortuna, anche un lavoro così privo di pretese può far accedere allo studio dei grandi problemi a causa del nesso che lega tutto con tutto, anche ciò che è piccolo con ciò che è grande. Così mi esprimerei dunque per tener vivo il vostro interesse nella trattazione degli atti mancati, apparentemente così insignificanti, delle persone sane. Ora, avviciniamoci a una persona qualsiasi a cui la psicoanalisi è estranea e chiediamole come si spiega tali accadimenti. Dapprima risponderà di certo: «Oh, non vale la pena spiegarli, sono piccole casualità». Cosa intende questa persona con ciò? Vuole affermare che esistono accadimenti così di poco conto da cadere fuori dalla concatenazione degli eventi del mondo e che potrebbero tanto esserci quanto non esserci? Quando qualcuno spezza in tal modo il determinismo naturale in un singolo punto manda a monte l'intera costruzione scientifica. Gli si può far notare quanto la stessa concezione religiosa sia più conseguente, poiché afferma risolutamente che non cade un passero dal cielo senza uno specifico volere divino. Ritengo che il nostro amico non vorrà trarre le conseguenze della sua prima risposta, si mostrerà conciliante e dirà che se studiasse queste cose troverebbe senza dubbio qualche spiegazione, che si tratta di piccoli sviamenti della funzione, imprecisioni dell'attività psichica e che se ne potrebbero indicare le circostanze in cui hanno avuto luogo. Una persona che normalmente è in grado di parlare correttamente, può avere un lapsus verbale: 1) quando sta poco bene e quando è stanca; 2) quando è agitata; 3) quando è presa eccessivamente da altre cose. È semplice confermare queste affermazioni. In effetti il lapsus verbale si presenta molto spesso quando si è stanchi, quando si ha mal di testa o sta per arrivare un'emicrania. Nelle stesse circostanze si verificano facilmente dimenticanze di nomi propri. Alcune persone sono solite riconoscere l'avvicinarsi dell'emicrania da queste dimenticanze dei nomi propri. Anche quando si è agitati si scambiano spesso le parole, ma anche le cose, "si prende una cosa per un'altra", e la dimenticanza di propositi così come molte altre azioni involontarie compaiono quando si è distratti, ossia quando si è in realtà concentrati su qualcos'altro. Un noto esempio di tale distrazione è il Professore del Fliegenden Blätter1 ["Fogli volanti", un settimanale umoristico] che dimentica l'ombrello e scambia il suo cappello con quello di un altro poiché pensa ai problemi che affronterà nel prossimo libro. Ognuno di noi può trarre dalla propria esperienza esempi di come ci si possa dimenticare di propositi che erano stati espressi e promesse che erano state fatte, perché nel frattempo abbiamo vissuto qualcosa che ci ha assorbito completamente. Ciò sembra del tutto comprensibile e anche immune da contraddizioni. Non è forse molto interessante, né è come ci aspettavamo. Guardiamo più da vicino queste spiegazioni degli atti mancati. Le condizioni che vengono indicate come cause del manifestarsi di questi fenomeni non sono della stessa natura. Indisposizione e disturbi circolatori forniscono una giustificazione fisiologica del pregiudizio della funzione normale; eccitamento, affaticamento, distrazione sono fattori di altro genere che si potrebbero chiamare psico-fisiologici. Questi ultimi si possono facilmente tradurre in teoria. Sia l'affaticamento che la distrazione, forse anche l'eccitamento generale provocano una suddivisione dell'attenzione che può avere come conseguenza che si rivolga troppo poca attenzione all'attività in questione. Tale attività quindi può essere disturbata molto facilmente ed essere eseguita in modo impreciso. Un lieve malessere, alterazioni nell'afflusso di sangue all'organo nervoso centrale possono avere lo stesso effetto poiché influenzano in modo analogo il fattore determinante che è la suddivisione dell'attenzione. Si tratterebbe dunque in tutti i casi degli effetti di un disturbo dell'attenzione per cause organiche o fisiche. Da ciò non sembra che emerga molto per il nostro interesse psicoanalitico. Potremmo essere tentati di abbandonare ancora una volta l'argomento. Tuttavia se osserviamo più da vicino tali fenomeni, non tutto torna in questa teoria dell'attenzione o quanto meno non tutto deriva naturalmente da essa. Scopriamo che tali azioni mancate [Fehlhandlungen] e tali dimenticanze si presentano anche in persone che non sono stanche, distratte o agitate, ma si trovano nel loro stato normale da ogni punto di vista, purché non si voglia attribuire a tali persone - proprio a causa dell'atto mancato - un'agitazione che esse stesse però non riconoscono. Può anche darsi che non accada così semplicemente che l'esecuzione di un'attività sia garantita dall'aumento dell'attenzione che le si rivolge e che sia messa in pericolo dalla sua diminuzione. Vi sono moltissime azioni che sono del tutto automatiche, che sono compiute con la minima attenzione e allo stesso tempo però con assoluta sicurezza. Chi passeggia quasi senza sapere dove andare, mantiene comunque la direzione giusta e giunge alla meta senza essersi perso. Almeno normalmente accade così. Il pianista esperto tocca i tasti giusti senza pensarci. Naturalmente può anche sbagliarsi una volta, ma se l'automaticità nel suonare accrescesse il pericolo di sbagliarsi, sarebbe proprio il virtuoso, che grazie a un lungo esercizio suona in modo del tutto automatico, a incorrere maggiormente in tale pericolo. Vediamo, al contrario, che molte azioni vengono compiute in modo assolutamente sicuro quando non sono oggetto di un'attenzione particolarmente alta, e che la disavventura dell'atto mancato può allora avvenire proprio quando si tiene particolarmente alla giusta esecuzione, e dunque non vi è di sicuro uno sviamento della necessaria attenzione. Si può quindi dire che l'atto mancato sarebbe l'effetto deH"'eccitamento" [Aufregung], ma non comprendiamo perché mai l'eccitamento non accresca l'attenzione rivolta a ciò che si intende fare con tanto interesse. Se qualcuno in un discorso importante o in una discussione orale dice a causa di un lapsus verbale il contrario di ciò che intende dire, ciò è difficilmente spiegabile secondo la teoria psico-fisiologica o dell'attenzione. Quando si verificano gli atti mancati si manifestano inoltre molti piccoli fenomeni collaterali, che non si comprendono e che non ci sono resi comprensibili con le spiegazioni che finora sono state date. Se ad esempio si è dimenticato momentaneamente un nome, ci si arrabbia, si vuole assolutamente ricordarlo e non riusciamo a desistere da tale proposito. Perché chi è adirato non riesce quasi mai a porre attenzione - come invece vorrebbe - sulla parola, che come egli stesso dice «gli sta sulla punta della lingua» e che riconosce subito quando viene pronunciata davanti a lui? Oppure si verificano casi in cui gli atti mancati si moltiplicano, si collegano, si sostituiscono l'uno all'altro. La prima volta ci si era dimenticati un appuntamento, la volta dopo ci si è riproposti di non dimenticarlo eppure risulta che erroneamente si è annotata un'ora diversa. Si cerca per vie traverse di ricordare una parola dimenticata, nel far questo sfugge un secondo nome che avrebbe potuto essere d'aiuto per ricordare il primo. Se ora si cerca questo secondo nome, sfugge un terzo, e così via. Lo stesso può accadere, com'è noto, anche negli errori di stampa che sono di certo da considerarsi atti mancati del redattore. Un errore di stampa ostinato di questo tipo è sfuggito una volta in un giornale socialdemocratico. Nel resoconto di una certa festività si leg- . geva: «Tra i presenti si notava anche Sua Altezza il Kornprinz [principe del grano]». Il giorno seguente si tentò di correggere l'errore. Il giornale si scusò e scrisse: «Naturalmente si voleva dire il Knorprinz [principe del bernoccolo]». In questi casi si parla di buon grado del demone degli errori di stampa, del folletto della cassa di composizione tipografica e simili, espressioni che comunque superano di gran lunga una teoria psico-fisiologica dell'errore di stampa. Non so neppure se vi è noto che il lapsus verbale possa essere provocato, o per così dire prodotto, dalla suggestione. Vi è un aneddoto in proposito: quando una volta a un debuttante del palcoscenico era stato affidato nella Pulzella d'Orléans l'importante ruolo di annunciare al re che «der Connétable schickt sein Schwert zurück» [il conestabile manda indietro la sua spada (Schwert)], durante le prove uno degli attori principali gli fece lo scherzo di suggerire ripetutamente al timido principiante, invece delle parole del testo, la frase «Der Komfortabel schickt sein Pferd zurück» [la carrozza manda indietro il suo cavallo], e raggiunse il suo intento. Alla rappresentazione lo sfortunato debuttò realmente con questo annuncio mutato, sebbene fosse stato sufficientemente messo in guardia, o forse proprio per questo. Tutte queste particolarità degli atti mancati non sono affatto chiarite dalla teoria del ritrarsi dell'attenzione. Ma non per questo tale teoria deve essere errata. Forse le manca qualcosa che la completi perché sia pienamente soddisfacente. Tuttavia anche alcuni atti mancati possono essere considerati da un ulteriore punto di vista. Scegliamo tra gli atti mancati il lapsus verbale come il più adatto ai nostri intenti. Potremmo ugualmente scegliere il lapsus di scrittura o di lettura. In proposito dobbiamo pur ammettere che finora ci siamo limitati a domandarci quando, a quali condizioni, si verifichi il lapsus verbale, ed è solo a questo riguardo che abbiamo ottenuto una risposta. Ma si può anche volgere il proprio interesse in un'altra direzione e domandarsi perché il lapsus verbale avvenga proprio in tal modo e non in un altro; si può prendere cioè in considerazione ciò che nel lapsus viene pronunciato. Osservate che finché non si trova una risposta a questa domanda, finché non si chiarisce quale sia l'effetto del lapsus, il fenomeno resta, dal punto di vista psicologico, un'accidentalità pur quando si sia trovata una spiegazione fisiologica. Quando mi accade di commettere un lapsus verbale, ciò potrebbe avvenire naturalmente in un numero infinito di modi, al posto della parola giusta potrei dirne migliaia di altre, compiere innumerevoli deformazioni della parola corretta. Ebbene, c'è qualcosa che in determinate circostanze mi impone di commettere il lapsus, tra tutti i modi possibili, in un determinato modo, oppure ciò è affidato al caso, all'arbitrio e a questa domanda non è possibile in assoluto rispondere in modo ragionevole? Due autori, Meringer e Mayer (un filologo e uno psichiatra), hanno compiuto nel 1895 il tentativo di affrontare l'interrogativo sul lapsus verbale sotto questo aspetto. Hanno raccolto esempi e li hanno illustrati innanzitutto da punti di vista puramente descrittivi. Naturalmente ciò non porta ancora a nessuna spiegazione, ma può mostrare la via per trovarla. Essi suddividono le deformazioni che il discorso subisce a causa del lapsus in scambi, presonanze, risonanze, mescolanze (contaminazioni) e cambi (sostituzioni). Vi illustrerò alcuni esempi tratti da questi gruppi principali dei due autori. Un caso di scambio si ha quando qualcuno dice «la Milo di Venere» anziché «la Venere di Milo» (inversione della sequenza delle parole); una presonanza: «Mi sentivo un pesso... un peso sul petto»; una risonanza sarebbe il noto infelice brindisi: «Ich fordere Sie auf, aufdas Wohl unseres Chefs aufzustoβen» [«Vi invito a ruttare (aufstoβen) alla salute del nostro capo» anziché "brindare" (anstoβen)]. Queste tre forme di lapsus verbale non sono proprio frequenti. Troverete invece un numero molto maggiore di esempi in cui il lapsus nasce da una contrazione o da una mescolanza, per esempio quando un signore si rivolge a una signora per la strada con le seguenti parole: «Wenn sie gestatten, mein Fräulein, móchte ich Sie geme begleit-digen» [Se permettete, signorina, vorrei accompag-giarla]. Nella parola composta oltre all'accompagnare si è evidentemente inserito l'oltraggiare. (Tra parentesi, il giovane non avrà avuto molto successo con la signorina) . Come sostituzione, Meringer e Mayer citano il caso di uno che dice: «Metto i preparati nella cassetta delle lettere [Brieflkasten]» anziché "nella cassetta d'incubazione [Brütkasten]", e simili. Il tentativo di spiegazione che i due autori hanno basato sulla loro raccolta di esempi è del tutto insufficiente. Essi ritengono che i suoni e le sillabe di una parola abbiano una valenza diversa e che l'innervazione dell'elemento con valenza maggiore possa disturbare l'elemento con valenza minore. In ciò essi si basano chiaramente sulle presonanze e sulle risonanze, di per sé non così frequenti. Per quanto riguarda altri effetti di lapsus verbali, tali preferenze fonotiche - sempre che esistano - non sono affatto da prendere in considerazione. I casi più frequenti di lapsus verbale sono quelli in cui al posto di una parola se ne pronuncia un'altra molto simile, e per molti tale somiglianza è sufficiente per spiegare il lapsus. Un professore, ad esempio, nel suo discorso inaugurale dice: «Ich bin nicht geneigt (geeignet), die Verdienste meines sehr geschätzen Vorgängers zu würdigen» [Non sono propenso (adatto) a descrivere i meriti del mio stimato predecessore]. O un altro professore: «Nel genitale femminile nonostante molte tentazioni... pardon, tentativi». La forma più comune e anche la più manifesta di lapsus verbale è però quella in cui si dice l'esatto contrario di ciò che si intendeva dire. In questo caso ci si allontana molto naturalmente dalle relazioni tra i suoni e dagli effetti delle somiglianze e in compenso ci si può appellare al fatto che gli opposti hanno una forte affinità concettuale reciproca e si trovano particolarmente vicini nell'associazione psicologica. Vi sono esempi storici di tal genere: una volta un presidente del nostro Parlamento aprì la seduta con le seguenti parole: «Signori, registro la presenza del numero legale e dichiaro perciò chiusa la seduta». La stessa relazione attrattiva tra i contrari è presente in qualsiasi altra comune associazione e in certe circostanze può comparire in modo del tutto inopportuno. Si racconta ad esempio che nel corso dei festeggiamenti per il matrimonio del figlio di H. Helmholtz con la figlia del noto inventore e grande industriale W. Siemens, il noto fisiologo Du Bois-Reymond aveva ricevuto l'incarico di tenere il discorso ufficiale. Egli concluse il suo brindisi, che di certo fu eccellente, con le parole: «Evviva dunque la nuova ditta Siemens e... Halskel», che era naturalmente il nome della vecchia ditta. L'accostamento tra i due nomi doveva essere per i berlinesi altrettanto usuale quanto il nome della ditta Riedel e Beutel peri viennesi. Dobbiamo aggiungere quindi alle relazioni tra i suoni e alle similitudini delle parole anche l'influenza delle associazioni verbali. Ma ciò non. basta. In una serie di casi non sembra possibile spiegare il lapsus verbale se prima non abbiamo preso in considerazione ciò che era stato detto o anche solo pensato in una frase precedente. Di nuovo dunque un caso di risonanza, come quello sottolineato da Meringer, ma che proviene da molto più lontano. (Devo confessare che nel complesso ho l'impressione che ora ci siamo allontanati più che mai dalla comprensione di quell'atto mancato che è il lapsus verbale). In ogni caso spero di non sbagliare affermando che nel corso dell'esame appena condotto noi tutti abbiamo ricavato una nuova impressione dagli esempi di lapsus verbale, sulla quale potrebbe valer la pena di soffermarsi. Abbiamo indagato le condizioni in presenza delle quali in genere si verifica un lapsus verbale, quindi le influenze che determinano il tipo di deformazione prodotta dal lapsus, ma non abbiamo ancora affatto esaminato l'effetto del lapsus di per sé, indipendentemente dalla sua formazione. Se ci decidiamo a farlo, dobbiamo infine trovare il coraggio di dire che in alcuni degli esempi ha un senso anche ciò che è il risultato del lapsus. Cosa significa che esso abbia un senso? Ebbene, vuol dire che l'effetto del lapsus verbale ha forse il diritto di essere considerato un atto psichico pienamente valido che persegue una propria meta, di essere compreso come espressione di un contenuto e di un significato. Finora abbiamo sempre parlato di atti mancati, ma ora sembra come se a volte lo stesso atto mancato sia un'azione del tutto precisa [ganz ordentliche] che si è semplicemente sostituita all'altra che ci si attendeva o che si aveva l'intenzione di compiere. Questo senso proprio dell'atto mancato sembra essere in alcuni casi tangibile ed evidente. Quando il presidente con le sue prime parole chiude la seduta del Parlamento, invece di aprirla, noi siamo indotti a ritenere, conoscendo le circostanze in cui si verificò il lapsus, che questo atto mancato abbia un senso. Il presidente non si aspetta nulla di positivo dalla seduta e sarebbe felice di poterla interrompere immediatamente. Indicare questo senso, l'interpretazione dunque di questo lapsus, non ci è affatto difficile. O se una signora domanda a un'altra con apparente apprezzamento: «Questo nuovo cappello delizioso lo ha pasticciato [aufgepatzt, deformazione di aufgeputz (adornato)] Lei stessa?», nessuna concezione scientifica del mondo potrà trattenerci dal cogliere in questo lapsus un'affermazione: «Questo cappello è un pasticcio». Oppure se una signora nota per la sua energia racconta: «Mio marito ha domandato al dottore quale dieta deve seguire. Il dottore ha detto che non ha bisogno di diete, può mangiare e bere quello che voglio», anche tale lapsus è l'evidente espressione di un programma ben determinato della signora. Signore e signori, se dovesse risultare che non solo pochi casi di lapsus verbali e atti mancati in genere hanno un senso, ma che ciò si verifica in un gran numero di casi, questo senso degli atti mancati, di cui finora non si è ancora parlato, diventerà necessariamente la cosa più interessante per noi e spingerà sullo sfondo tutti gli altri punti di vista. Possiamo dunque lasciare da parte tutti i fattori fisiologici o psico-fisiologici e ci è lecito dedicarci a investigazioni puramente psicologiche sul senso, ossia sul significato, sull'intenzione dell'atto mancato. Non trascureremo quindi di esaminare secondo questa prospettiva un gran quantità di materiale che deriva dall'osservazione. Tuttavia prima di portare a compimento tale proposito vorrei invitarvi a seguire con me un'altra traccia. È accaduto ripetutamente che un poeta si sia servito del lapsus verbale o di un altro atto mancato come mezzo di esposizione poetica. Questo fatto ci deve di per sé dimostrare che il poeta considera l'atto mancato, ad esempio il lapsus verbale, come qualcosa-di sensato, per cui lo produce intenzionalmente. Non accade che il poeta commetta per caso un lapsus di scrittura e lo conservi come lapsus verbale del suo personaggio. Egli vuole farci comprendere qualcosa con il lapsus verbale, e noi possiamo verificare di cosa si tratti; se ad esempio vuol alludere al fatto che il personaggio in questione è distratto, o affaticato, o sta per avere un'emicrania. Naturalmente non vogliamo sopravvalutare il senso del lapsus verbale del poeta. In realtà i lapsus potrebbero essere privi di senso, un'accidentalità psichica, o potrebbero essere sensati solo in casi molto rari, e il poeta conserverebbe il diritto di spiritualizzarli conferendo loro un senso per usarli secondo i suoi scopi. Ma non ci sarebbe neppure da meravigliarsi se con riguardo al lapsus verbale avessimo da imparare più dai poeti che dai filologi o dagli psichiatri. Un esempio di lapsus verbale di tal genere si trova nel Wallenstein (I Piccolomini, Atto I, scena 5). Max Piccolomini, nella scena precedente, si è schierato appassionatamente dalla parte del duca, esaltando i benefici della pace che gli si erano svelati mentre accompagnava al campo la figlia di Wallenstein. Egli lascia la scena mentre suo padre e il messaggero di corte, Questenberg, si trovano in pieno sgomento. La scena quinta prosegue: QUESTENBERG: Miseri noi! Stanno così le cose? Amico, e noi lasciamo che con questa illusione Egli se ne vada, e non lo richiamiamo subito Per aprirgli gli occhi All'istante? OTTAVIO {tornando in sé da un profondo pensiero): A me ora li ha aperti, ed ora vedo più di quanto volli. QUESTENBERG: Che vedeste? OTTAVIO: Maledetto viaggio! QUESTENBERG: Non comprendo. OTTAVIO: Venite! Io devo Tosto seguire la traccia infausta, vedere coi miei occhi... venite... (Vuole condurlo via con sé.) QUESTENBERG: Per dove? OTTAVIO (impaziente): Da lei! QUESTENBERG: Da... OTTAVIO (si corregge): Dal duca! Andiamo! Ottavio voleva dire «da lui», dal duca, ma commette un lapsus e dicendo «da lei» rivela, quanto meno a noi, di aver compreso molto bene ciò che aveva indotto il giovane guerriero a schierarsi per la pace. Un esempio ancora più persuasivo è stato scoperto da Otto Rank in Shakespeare. Si trova nel Mercante di Venezia, nella famosa scena della scelta fra i tre scrigni da parte del fortunato pretendente, e forse non posso far nulla di meglio che leggervi qui la breve esposizione di Rank. «Un lapsus verbale mosso da una motivazione poetica oltremodo sottile e utilizzato in modo tecnicamente eccellente, che al pari di quello indicato da Freud nel Wallenstein rivela che i poeti conoscono bene il meccanismo e il senso di tali atti mancati e presumono la loro comprensione anche da parte degli spettatori, si trova nel Mercante di Venezia (Atto III, scena 2) di Shakespeare. Porzia, costretta dalla volontà del padre a scegliere lo sposo che la sorte le assegnerà, finora è sfuggita a tutti i pretendenti sgraditi grazie alla fortuna del caso. Infine avendo trovato in Bassanio il pretendente che realmente ama, deve temere che anche a lui la sorte sia sfavorevole. Preferirebbe ora dirgli che egli anche in questo caso potrà essere certo del suo amore, ma a ciò è d'ostacolo il giuramento compiuto. In questo conflitto interiore il poeta le fa dire al pretendente gradito: Aspetta ancora un giorno o due, ti prego, prima di scegliere, perché se tu sceglies-si male io perderei la tua compagnia. Pazienta ancora un po'. Qualcosa, ma non è l'amore, mi dice di non perderti [...] Potrei insegnarti come scegliere bene, ma allora sarei spergiura, e non lo sarò mai. Maledetti i tuoi occhi che mi hanno stregata e divisa in due; una metà di me è tua, l'altra metà è tua - mia, volevo dire - ma se è mia è tua, e dunque tutta tua senz'essere tua2 [William Shakespeare, Il mercante di Venezia]. Proprio ciò a cui Porzia vorrebbe soltanto velatamente alludere, perché in realtà dovrebbe tacerglielo del tutto, ossia che ella già prima dell'esito della sorte è tutta sua e lo ama, il poeta lo fa irrompere apertamente nel lapsus verbale con ammirevole delicatezza psicologica e riesce con questo accorgimento a calmare l'insopportabile incertezza dell'amante così come la partecipazione dello spettatore circa l'esito della scelta». Osservate ancora con quale finezza Porzia alla fine concilia le due affermazioni contenute nel lapsus verbale, come risolve la contraddizione tra esse e come pure in fondo dà ragione al lapsus: «[...] ma se è mia è tua, e dunque tutta tua». Anche un pensatore estraneo alla medicina ha svelato per caso con un'osservazione il senso di un atto mancato e ci ha risparmiato la fatica di spiegarlo. Voi tutti conoscete l'arguto scrittore satirico Lichtenberg (1742-1799), del quale Goethe disse: «Laddove scherza, lì si nasconde un problema». Ebbene, talvolta nello scherzo appare anche la soluzione del problema. Lichtenberg annota, nelle sue Idee spiritose e satiriche, la frase: «Leggeva sempre Agamemnon invece di "angenommen" [accettato], tanto aveva letto Omero». Questa è proprio la teoria del lapsus di lettura. La prossima volta esamineremo se possiamo trovarci d'accordo con i poeti sulla concezione degli atti mancati. Lezione 3. Gli atti mancati {continuazione)Signore e signorina volta precedente siamo giunti a considerare l'atto, mancato non in rapporto all'atto che s'intendeva compiere e che è stato disturbato, ma in sé e per sé. Abbiamo avuto l'impressione che in alcuni casi esso sembra tradire il suo proprio senso, e ci siamo detti che se fosse confermato per un numero maggiore di casi che l'atto mancato ha un senso, quest'ultimo diventerebbe immediatamente più interessante dell'indagine sulle circostanze in cui l'atto mancato è comparso. Concordiamo ancora una volta su ciò che vogliamo intendere per "senso" di un processo psichico. Null'altro che l'intenzione a cui esso serve e la sua posizione in una serie psichica. Per la maggior parte delle nostre ricerche possiamo sostituire "senso" [Sinn] anche con "intenzione" [Absicht], o "tendenza" [Tendenz]. Era dunque solo un'ingannevole apparenza o una poetica magnificazione dell'atto mancato l'aver creduto di riconoscervi un'intenzione? Restiamo fedeli agli esempi dei lapsus verbali e cerchiamo di farci una visione d'insieme di un gran numero di essi. Troveremo intere categorie di casi in cui l'intenzione, il senso del lapsus è del tutto evidente. In primo luogo quei lapsus in cui si dice il contrario di ciò che si intendeva dire. Il presidente dice nel discorso di apertura: «Dichiaro chiusa la seduta». Ciò è in effetti inequivocabile. Senso e intenzione del suo lapsus è che vuol chiudere la seduta. «Lo dice lui stesso», si vorrebbe citare in proposito, dobbiamo solo prenderlo alla lettera. Non m'interrompete ora obiettando: ciò non è possibile, sappiamo che egli non voleva chiudere la seduta, ma aprirla, egli stesso, che abbiamo riconosciuto come istanza suprema, può confermare che voleva aprirla. In ciò dimenticate che abbiamo convenuto di considerare gli atti mancati anzitutto in sé e per sé; il loro rapporto con l'intenzione che li disturba dovrà entrare nel discorso solo in seguito. Altrimenti vi renderete responsabili di un errore logico in quanto non farete altro che eludere il problema che viene trattato, ciò che in inglese si dice begging the question. In altri casi in cui non si pronuncia l'esatto contrario di ciò che si intendeva dire, il lapsus può comunque esprimere un senso opposto. «Non sono propenso [geneigt] a descrivere i meriti del mio predecessore». "Propenso" non è il contrario di "adatto", ma è un'evidente confessione, in aspro contrasto con la situazione in cui il relatore doveva parlare. In altri casi ancora il lapsus verbale aggiunge semplicemente un altro senso al senso che si intendeva dare. La frase suona quindi come una contrazione, un'abbreviazione, una condensazione di più frasi. Così la dama energica: «Egli può mangiare e bere quel che io voglio». È proprio come se avesse detto: «Egli può mangiare e bere quello che vuole, ma cosa ha da volere lui? Sono io che voglio al suo posto». I lapsus verbali danno spesso l'impressione di essere abbreviazioni di tal genere, per esempio quando un professore di anatomia dopo la sua lezione sulla cavità nasale domanda se i presenti hanno compreso e, nonostante la generale risposta affermativa, prosegue: «Non credo, poiché le persone che capiscono la cavità nasale si possono contare su un dito... pardon, sulle dita di una mano». Il discorso abbreviato ha pure il suo senso: c'è solo una persona che comprende quell'argomento. A questi gruppi di casi in cui è l'atto mancato stesso a mostrare il suo senso, se ne contrappongono altri in cui il lapsus verbale non ha di per sé alcun senso e che disattendono dunque fortemente le nostre aspettative. Per quanto concerne gli accadimenti così comuni dello storpiare un nome proprio con un lapsus verbale o pronunciare successioni di suoni insoliti, l'interrogativo se tutti gli atti mancati abbiano un qualche significato sembra già risolversi in senso negativo. Ma da im esame più ravvicinato di tali esempi emerge che è possibile una comprensione di queste deformazioni, che la differenza tra questi casi più oscuri e i precedenti e chiari non è affatto così grande. Un signore, a cui era stato domandato lo stato di salute del suo cavallo, risponde: «Tri... tirerà avanti forse ancora un mese». Interrogato su che cosa in realtà volesse dire, spiega che aveva pensato che fosse una situazione triste, e che il conflitto tra "tirerà" e "triste" aveva prodotto quel «tri»2 (Meringer e Mayer). Un altro racconta di alcuni procedimenti che critica e prosegue: «Ma poi alcuni fatti sono emerchi...». Interrogato, conferma che voleva definire tali processi come porcherie. Emersi e porcherie insieme hanno prodotto lo strano termine «emerchi»3 (Meringer e Mayer). Ricordate il caso del giovane che voleva «accompaggiare» la signora sconosciuta. Ci eravamo presi la libertà di scomporre tale formazione verbale in "accompagnare" e "oltraggiare", e ci sentivamo sicuri di tale interpretazione, senza pretendere una conferma. Da tali esempi vedete che anche questi casi più oscuri di lapsus verbale possono essere spiegati con il concorso, l'interferenza [Interferenz] di due diverse intenzioni del discorso. Le differenze consistono solo nel fatto che in un caso una delle intenzioni si sostituisce completamente all'altra, così come nel lapsus verbale per opposizione, mentre nell'altro caso un'intenzione deve accontentarsi di deformare o di modificare l'altra, cosicché si producono formazioni miste che appaiono di per sé più o meno sensate. A questo punto riteniamo di aver compreso il segreto di un gran numero di lapsus verbali. Se ci atteniamo a tale comprensione potremmo capire ancora altri gruppi di lapsus finora misteriosi. Nel caso della deformazione di nomi, ad esempio, non possiamo supporre che si tratti sempre del concorso di due nomi simili, ma diversi. D'altra parte la seconda intenzione non è affatto difficile da intuire. La deformazione di un nome accade al di fuori del lapsus abbastanza spesso. Essa rappresenta un tentativo di creare una dissonanza nel nome o di dargli una connotazione negativa. È un noto modo (o malo modo) di ingiuria, al quale l'uomo educato impara presto, anche se non volentieri, a rinunciare. Continua a concederselo spesso come motto di spirito, di livello, ad ogni modo, molto basso. Per citare solo un esempio volgare e brutto di questa deformazione di nomi, ricordo che in questi tempi il nome del presidente della repubblica francese Poincaré è stato trasformato in «Schweinskarré» [costoletta di maiale]. È evidente supporre anche nel lapsus un tale intento oltraggioso che si afferma nella deformazione del nome. Interpretazioni simili si impongono, in linea con la nostra concezione, per certi casi di lapsus verbale con effetti comici o assurdi. «Vi invito a ruttare alla salute del nostro capo». In questo caso un'atmosfera festosa è disturbata inaspettatamente dall'irruzione di una parola che risveglia un'idea disgustosa e, considerando l'esempio di altre frasi offensive e provocatorie, non possiamo far altro che supporre l'intenzione di esprimere una tendenza che contraddice nettamente l'ammirazione manifesta e che vuol dire all'incirca: «Non credeteci, non sono serio, me ne infischio di questo tipo...» e simili espressioni. Lo stesso vale anche per lapsus che rendono sconvenienti e oscene parole innocenti come apopò per à propos [a proposito], o Eischeiβweibchen [femminuccia caca uova] per Eiweiβscheibchen [dischetti d'albume]4 (Meringer e Mayer). Notiamo in molte persone una tale tendenza a deformare intenzionalmente parole innocenti in oscene per ricavarne un certo piacere. Essa viene considerata una cosa divertente, anche se in realtà dovremmo prima informarci dalla persona che ha pronunciato tale parola se lo abbia fatto intenzionalmente per gioco o se le è sfuggito un lapsus verbale. Ebbene, così avremmo risolto con uno sforzo relativamente modesto l'enigma degli atti mancati! Essi non sono accidentalità, ma atti psichici rilevanti, hanno il loro senso, si formano mediante l'azione congiunta, o forse meglio l'azione contrapposta, di due diverse intenzioni. Ma ora posso anche capire che vogliate sommergermi con una gran quantità di domande a cui devo rispondere e dubbi che devo risolvere, prima di poterci rallegrare di questo primo risultato del nostro lavoro. Di certo non voglio indurvi a decisioni affrettate. Prendiamo in considerazione con calma l'intera serie di cose che abbiamo esaminato. Cosa volete chiedermi? Se ritengo che questa spiegazione valga per tutti i casi di lapsus verbale o solo per un certo numero? Se sia possibile estendere questa stessa concezione anche ai molti altri generi di atti mancati, come il lapsus di lettura, di scrittura, dimenticanze, sbadataggini, smarrimenti ecc.? Quale importanza possono avere ancora i fattori della stanchezza, dell'eccitamento, della distrazione, del disturbo dell'attenzione in considerazione della natura psichica degli atti mancati? Inoltre è chiaro che delle due tendenze concorrenti negli atti mancati, una è sempre manifesta, l'altra invece non sempre. Cosa si deve fare dunque per intuire quest'ultima, e quando si ritiene di averla colta come si prova che non sia solo presunta, ma proprio vera? Avete ancora qualcos'altro da domandare? Se no, proseguo io stesso. Vi ricordo che non ci interessa molto degli atti mancati in quanto tali e che volevamo soltanto apprendere dal loro studio qualcosa di utile per la psicoanalisi. Perciò pongo la domanda: che tipo di intenzioni e tendenze sono queste che possono disturbare in tal modo le altre, e quali relazioni vi sono tra le tendenze disturbatrici e quelle disturbate? Così, subito dopo la soluzione del problema, ricominciamo il nostro lavoro da capo. Avete domandato se questa sia la spiegazione di tutti i casi di lapsus verbale? Sono molto incline a crederlo, e precisamente perché ogni volta che indaghiamo un caso di lapsus verbale possiamo trovare una soluzione del genere. Ma non si può neppure dimostrare - direte - che un lapsus non possa verificarsi senza tale meccanismo. Può essere così. Per noi è teoreticamente indifferente, perché le conclusioni che vogliamo trarre per l'introduzione alla psicoanalisi restano valide, seppure - cosa che non è certo il caso - solo una minoranza di casi di lapsus dovesse sottostare alla nostra concezione. Alla domanda seguente, se sia lecito estendere agli altri tipi di atti mancati ciò che è emerso per il lapsus verbale, voglio rispondere in anticipo di sì. Ve ne convincerete quando esamineremo esempi di lapsus di scrittura, di sbadataggini ecc. Vi propongo però, per ragioni tecniche, di rinviare questo lavoro finché non avremo trattato in modo più approfondito il lapsus verbale stesso. Merita invece una risposta più accurata la domanda su cosa possano ancora per noi significare i fattori messi in risalto da alcuni autori, ossia i disturbi circolatori, la stanchezza, l'eccitamento, la distrazione, dal momento che ammettiamo tale meccanismo psichico del lapsus verbale. Notate bene che non contestiamo tali fattori. In genere, non accade molto spesso che la psicoanalisi contesti qualcosa che proviene da altri campi del sapere; normalmente essa si limita ad aggiungervi qualcosa di nuovo e talvolta accade a dir il vero che questo qualcosa, fino ad allora trascurato e solo in seguito aggiunto, sia proprio l'essenziale. È sicuramente da ammettere, per l'insorgenza del lapsus, l'influenza delle disposizioni fisiologiche causate da un leggero malessere, disturbi della circolazione, stati di esaurimento. L'esperienza quotidiana e personale vi potrà convincere di questo. Ma quanto poco si spiega con ciò! In primo luogo queste non sono condizioni necessarie degli atti mancati. Il lapsus verbale si verifica anche in persone pienamente in salute e in condizioni normali. Tali fattori somatici hanno quindi solo il valore di facilitare e favorire il particolare meccanismo psichico del lapsus verbale. Per questa relazione ho usato una volta un paragone che ora ripeterò perché non sono in grado di sostituirlo con uno migliore. Supponiamo che io vada in una notte oscura in un luogo solitario e che lì venga assalito da un vagabondo che mi porta via orologio e portafogli e che, non avendo visto chiaramente il volto del ladro, sporga denuncia alla più vicina stazione di polizia con le seguenti parole: «La solitudine e l'oscurità mi hanno appena derubato dei miei oggetti di valore». Il commissario di polizia può allora dirmi: «Lei sembra seguire - a torto - una concezione estremamente meccanicistica. Rappresentiamo invece la situazione in questo modo: "Protetto dall'oscurità, favorito dalla solitudine, un ladro sconosciuto Le ha sottratto i suoi oggetti di valore". Nel suo caso mi sembra che la cosa più importante sia trovare il ladro. Poi, forse, potremmo togliergli il bottino». I fattori psicofisiologici, come l'eccitamento, la distrazione, il disturbo dell'attenzione, sono chiaramente molto poco utili alla spiegazione. Sono soltanto modi dì dire, paraventi dietro ai quali non dobbiamo temere di guardare. Ad essere in questione è piuttosto cosa abbia provocato . l'eccitamento, il particolare sviamento dell'attenzione. Deve riconoscersi inoltre l'importanza delle influenze fonetiche, delle similitudini tra le parole, e delle associazioni usate che derivano dalle parole. Esse facilitano il lapsus verbale poiché gli mostrano la strada che può seguire. Ma se ho una strada davanti a me è solo per questo evidente che io la percorra? C'è bisogno anche di un motivo perché mi decida a intraprenderla, e oltre a ciò di una forza che mi faccia procedere su quella strada. Tali relazioni tra suoni e tra parole sono dunque anch'esse, come le disposizioni somatiche, solo fattori che favoriscono il lapsus verbale e non possono fornirne la reale spiegazione. Pensate: nella stragrande maggioranza di casi il mio discorso non è disturbato dalla circostanza che le parole da me usate ricordano altre per affinità fonetica, o dal fatto che siano intimamente legate al loro termine opposto, o perché da esse derivino le associazioni in uso. Si potrebbe inoltre, come il filosofo Wundt, trovare la via d'uscita nel dire che il lapsus verbale si verifica quando, a causa di una spossatezza fisica, le tendenze associative hanno il sopravvento sull'intenzione del discorso. Ciò potrebbe anche convincerci, se non fosse contraddetto dall'esperienza, la quale c'insegna che in una serie di casi mancano i fattori somatici, in un'altra i fattori associativi che favoriscono il lapsus verbale. Particolarmente interessante però è per me la vostra successiva domanda: in quale modo si stabiliscano le due tendenze che interferiscono tra loro. Probabilmente non immaginate quanto questa domanda sia carica di conseguenze. Di certo, una delle due tendenze, quella disturbata, è sempre presente: la persona che commette l'atto mancato la conosce e l'ammette. Motivo di dubbio e di riflessione può solo essere l'altra, la tendenza disturbatrice. Ebbene, abbiamo già detto, e non lo avete di certo dimenticato, che in una serie di casi quest'altra tendenza è altrettanto chiara. Essa è manifestata dall'effetto del lapsus verbale, se solo avessimo il coraggio di concedere a tale effetto un suo proprio valore. Il presidente che dice per errore il contrario di ciò che vuol dire, è chiaro che intenda aprire la seduta, ma è altrettanto chiaro che vorrebbe anche chiuderla. Ciò è talmente evidente che non resta altro da chiarire. Ma negli altri casi in cui la tendenza disturbatrice si limita a deformare quella originaria, senza manifestarsi del tutto, come la si può intuire dalla deformazione? In una prima serie di casi essa si determina in modo molto semplice e sicuro, allo stesso modo della tendenza disturbata. Quest'ultima ci viene immediatamente comunicata dal soggetto stesso che ha parlato. Dopo il lapsus egli ristabilisce subito il tenore della frase che originariamente intendeva pronunciare: «Tri..., no, tirerà avanti forse ancora un mese». Ebbene, allo stesso modo ci facciamo dire da lui la tendenza deformante. Gli domandiamo: «Perché inizialmente ha detto tri...?», ed egli risponde: «Volevo dire che è una situazione triste». E anche nel caso del lapsus «emerchi», è la stessa persona che lo ha commesso a confermare di aver voluto dire inizialmente: «E' una porcheria», ma di essersi poi moderato e di aver cambiato tono. In questo caso, l'accertamento della tendenza deformante è riuscito con la stessa sicurezza di quello della tendenza deformata. Non è un caso che vi abbia mostrato qui esempi che non sono stati presentati e risolti né da me né da uno dei miei seguaci. In entrambi i casi era necessaria una certa operazione per giungere alla soluzione. Si dovette domandare al soggetto perché avesse commesso quel lapsus, che cosa sapesse dire sul proprio lapsus. Altrimenti egli avrebbe forse trascurato il lapsus, senza volerlo chiarire. Interrogato, però, diede la prima spiegazione che gli venne in mente. E ora vedete questa piccola operazione e il suo risultato, questa è già una psicoanalisi e il prototipo di ogni indagine psicoanalitica che condurremo in seguito. Sono troppo diffidente ora se suppongo che, nello stesso momento in cui la psicoanalisi vi compare innanzi, fa capolino in voi anche la resistenza contro di essa? Non avete voglia di obiettarmi che le informazioni fornite dal soggetto che ha commesso il lapsus non siano del tutto probanti? Pensate che egli si preoccupi naturalmente di seguire l'invito a spiegare il lapsus e perciò dica la prima cosa che gli viene in mente se gli sembra idonea a fornire una tale spiegazione. Non è data perciò una prova che il lapsus sia avvenuto realmente così. Certo potrebbe essere avvenuto in tal modo, ma anche diversamente. Al soggetto sarebbe potuto venire in mente anche qualcosa di diverso che si sarebbe adattato altrettanto bene, o forse anche di più, alla spiegazione. E' singolare quanto poco rispetto abbiate in fondo per un fatto psichico! Immaginate che qualcuno abbia intrapreso l'analisi chimica di una certa sostanza e che di un suo componente sia riuscito ad accertare un determinato peso, un certo quantitativo di milligrammi. Dalla misura di tale peso possono trarsi determinate conclusioni. Credete ora che a un chimico verrà mai in mente di criticare queste conclusioni con la motivazione che la sostanza isolata avrebbe potuto avere anche un altro peso? Chiunque si inchina davanti al fatto che era proprio quel peso e nessun altro e su ciò costruisce fiducioso le sue ulteriori conclusioni. Soltanto di fronte al fatto psichico che alla persona interrogata è venuta in mente una certa idea non credete che abbia valore e dite che gli sarebbe potuto venire in mente anche qualcos'altro! Avete l'illusione che vi sia una libertà psichica e non vi piace rinunciarvi. Mi dispiace, ma in ciò mi trovo in netto contrasto con voi. A questo punto vi fermerete, ma solo per riprendere la resistenza a un altro livello. Proseguite: «Comprendiamo che la tecnica particolare della psicoanalisi consiste nel lasciare che sia lo stesso analizzato a dire la soluzione dei suoi problemi. Consideriamo ora un altro esempio, quello in cui l'oratore invita l'assemblea a ruttare alla salute del capo. Lei dice che in questo caso l'intenzione disturbatrice sia quella dell'ingiuria: è questa che si oppone all'espressione di ossequio. Ma ciò è una sua semplice interpretazione, basata su osservazioni estranee al lapsus verbale. Se in questo caso interroga l'autore del lapsus, non le confermerà che intendeva insultare, piuttosto lo contesterà con forza. Perché non rinuncia a tale interpretazione indimostrabile di fronte a questa evidente obiezione?». Sì, stavolta avete trovato un argomento forte. Mi immagino di vedere lo sconosciuto oratore, probabilmente è un assistente del capo che viene festeggiato, forse già libero docente, un giovane con le migliori prospettive. Voglio sollecitarlo per sapere se non abbia avvertito qualcosa che possa essersi opposta all'invito a omaggiare il capo. Ma qui colgo nel segno. Egli diventa impaziente e improvvisamente mi aggredisce: «Ora la smetta con i suoi interrogatori altrimenti divento antipatico. Mi rovinerà l'intera carriera con i suoi sospetti. Ho detto "ruttiamo" [aufstoβen] al posto di "brindiamo" [anstoβen] semplicemente perché già due volte in precedenza ho pronunciato auf nella stessa frase. È ciò che Meringer chiama una risonanza e non c'è nient'altro da sottilizzare. Capito? Basta». Hmm, è una reazione sorprendente, un rifiuto davvero energico. Vedo che non si ottiene nulla dal giovane, ma penso anche tra me che egli tradisca un forte interesse personale affinché il suo atto mancato non abbia senso. Forse anche voi non troverete giusto che egli diventi immediatamente così sgarbato per un'indagine puramente teoretica, ma in fondo - penserete - deve pur sapere cosa volesse dire e cosa no. Allora, deve saperlo? Questo sarebbe forse ancora da domandarsi. Ma adesso credete di avermi in pugno. «Questa è dunque la sua tecnica», vi sento dire. «Quando l'autore del lapsus dice qualcosa in proposito che a Lei va bene, egli diventa la massima autorità in merito. "Lo dice lui stesso!". Ma quando ciò che dice non le va a genio, tutt'a un tratto ritiene che costui non valga nulla e che non gli si debba credere». Ciò è pur vero. Ma posso presentarvi un caso simile in cui accade qualcosa di altrettanto incredibile. Quando un imputato riconosce un'azione davanti al giudice, questi crede alla confessione, ma quando non l'ammette, il giudice non gli crede. Se le cose andassero diversamente non ci sarebbe alcuna amministrazione della giustizia, e nonostante errori occasionali, dovete pur ritener valido questo sistema. «Lei è dunque il giudice e colui che ha commesso il lapsus un imputato? Il lapsus è quindi un crimine?». Forse non dobbiamo rifiutare questa analogia. Ma vedete a quali profondi contrasti siamo giunti soltanto approfondendo i problemi apparentemente così innocui degli atti mancati. Contrasti che al momento non possiamo ancora per nulla comporre. Vi offro ora un temporaneo compromesso sulla base del paragone con il giudice e l'imputato. Dovete concedermi che il senso di un atto mancato non lascia adito a dubbi quando è l'analizzato stesso a riconoscerlo. Da parte mia voglio concedervi che non si può ottenere una prova diretta del senso presunto se l'analizzato rifiuta di darci l'informazione e naturalmente anche quando non gli è possibile darla. Noi allora, come nel caso dell'amministrazione della giustizia, siamo destinati ad attenerci agli indizi, i quali possono renderci verosimile - una volta più, un'altra meno - una decisione. In tribunale, per ragioni pratiche, si deve parlare di colpevolezza anche sulla base di prove indiziarie. Noi non siamo obbligati a ciò. Ma non siamo neppure costretti a rinunciare all'utilizzo di tali indizi. Sarebbe un errore credere che una scienza consista di mere proposizioni teoretiche rigorosamente dimostrate, e ingiusto pretenderlo. Solo un'indole malata di autorità, che ha il bisogno di sostituire il suo catechismo religioso con un altro, sia pure scientifico, solleva una tale pretesa. La scienza ha nel suo catechismo solo poche proposizioni apodittiche, per il resto è composta di affermazioni che ha portato sino a un certo grado di verosimiglianza. È proprio segno di una mentalità scientifica poter trovare soddisfacenti tali approssimazioni alla certezza ed essere in grado di proseguire il lavoro costruttivo nonostante la mancanza di conferme definitive. Da dove prendiamo però i punti d'appoggio per le nostre interpretazioni, gli indizi per la nostra dimostrazione nel caso in cui siano le stesse affermazioni dell'analizzato a non chiarire il senso dell'atto mancato? Da diverse parti. In primo luogo, dall'analogia con fenomeni estranei agli atti mancati, ad esempio se riteniamo che la deformazione dei nomi nella forma del lapsus verbale abbia lo stesso senso offensivo del loro storpiamento intenzionale. In secondo luogo, dalla situazione psichica in cui si è verificato il lapsus, dalla nostra conoscenza del carattere della persona che ha commesso l'atto mancato e delle impressioni che tale persona ha ricevuto prima del lapsus, alle quali probabilmente ha reagito con l'atto mancato. Normalmente avviene che noi interpretiamo l'atto mancato sulla base di regole generali. All'inizio si tratta dunque solo di un'ipotesi, una proposta d'interpretazione, per poi trarne la conferma dall'indagine della situazione psichica. Talvolta dobbiamo anche aspettare che accadano avvenimenti che si sono - per così dire -annunciati con l'atto mancato per trovare conferma alla nostra ipotesi. Non mi è facile addurvi prove in proposito in quanto devo limitarmi al campo del lapsus verbale, sebbene vi siano anche qui alcuni buoni esempi. Il giovane che vuole accompaggiare una signora, è di certo un timido; la signora il cui marito può mangiare e bere ciò che lei vuole la conosco come una di quella donne energiche che sanno di comandare in casa. O prendiamo il caso seguente: in un'assemblea generale della "Concordia" un membro giovane tiene un impetuoso discorso d'opposizione nel corso del quale si rivolge alla direzione dell'associazione come i signori membri del «prestito» [Vorschuss], che sembra derivi dall'unione di "presidenza" [Vorstand] e "comitato" [Ausschuβ]. Noi supporremo che egli sia scosso da una tendenza disturbatrice contro la sua opposizione che potesse appoggiarsi su qualcosa che ha a che fare con un prestito. In effetti, apprendiamo dal nostro informatore che l'oratore era costantemente a corto di denaro e proprio allora aveva presentato una richiesta di prestito. Come intenzione disturbatrice si può dunque realmente inserire il pensiero: «Moderati nella tua opposizione, sono le stesse persone che devono concederti il prestito». Vi posso presentare però una vasta scelta di tali prove indiziarie se estendo il discorso al vasto campo degli altri atti mancati. Quando qualcuno dimentica un nome proprio che normalmente gli è noto, o nonostante tutti i suoi sforzi può tenerlo a mente solo a fatica, è evidente supporre che egli abbia qualcosa contro colui che porta quel nome, al punto che non pensa volentieri a lui. Aggiungete le seguenti spiegazioni alla situazione psichica in cui si è verificato tale atto mancato. «Un signor Y si innamora invano di una signora che poco dopo sposa un signor X. Sebbene ora il signor Y conosca il signor X già da diverso tempo e intrattenga persino rapporti d'affari con lui, si dimentica continuamente il suo nome al punto da dover più volte domandarlo ad altre persone quando vuole corrispondere con lui». Il signor Y non vuole chiaramente saper nulla del suo rivale fortunato. «Non deve esserci memoria di lui»6 ( Da C.G.Jung). Oppure: una signora chiede al medico notizie di una comune conoscente, ma la nomina con il nome da signorina. Ha dimenticato il nome da sposata. La signora ammette poi che non approvava quel matrimonio e che non poteva soffrire il marito di questa amica7. Sotto altri aspetti avremo ancora alcune cose da dire sulla dimenticanza di nomi. Ora ci interessa soprattutto la situazione psichica nella quale è avvenuta la dimenticanza. La dimenticanza di propositi può essere ricondotta molto in generale a una corrente contraria che non vuole compiere il proposito. Non si pensa così solo in psicoanalisi, ma è una concezione generale degli uomini, alla quale tutti si attengono nella vita, e che rinnegano solo nella teoria. Il protettore che si scusa con il protetto per aver dimenticato una sua richiesta non è giustificato per quest'ultimo. Il protetto pensa immediatamente: «Non gliene importa nulla; l'ha promesso, ma in realtà non lo vuole fare». In certe situazioni della vita perciò la dimenticanza è vietata e sembra annullata la differenza tra la concezione popolare e quella psicoanalitica di tali atti mancati. Immaginatevi una casalinga che accoglie il suo ospite con le parole: «Cosa? E venuto oggi? Avevo del tutto dimenticato di averla invitata per oggi». Oppure il giovane che dovesse confessare all'innamorata di aver dimenticato l'appuntamento fissato la volta precedente. Di certo non lo confesserà e preferirà inventare sul momento gli impedimenti più inverosimili che lo hanno trattenuto dal recarsi all'appuntamento e che gli hanno reso poi impossibile di comunicarglielo. Tutti conosciamo, e non possiamo che ritenere giustificato, il fatto che nella vita militare la scusa di aver dimenticato qualcosa non serve a nulla e non protegge da nessuna punizione. In questo caso improvvisamente tutti sono d'accordo che un determinato atto mancato sia sensato e quale esso sia. Perché non sono abbastanza coerenti per estendere tale concezione agli altri atti mancati e aderirvi completamente? Vi è naturalmente anche per questo una risposta. Se il senso di tale dimenticanza di propositi è talmente poco dubbio anche per i profani, tanto meno sarete sorpresi dallo scoprire che i poeti utilizzano nello stesso senso tale atto mancato. Chi di voi ha letto o ha visto rappresentato Cesare e Cleopatra di B. Shaw, si ricorderà che Cesare, nell'ultima scena, in procinto di partire, è perseguitato dall'idea di dover fare qualcosa che però non ricorda in quel momento. Alla fine viene fuori che cos'era: congedarsi da Cleopatra. Con questo piccolo accorgimento il poeta intende attribuire al grande Cesare una superiorità che egli non aveva e alla quale non aspirava affatto. Potete apprendere dalle fonti storiche che Cesare si era fatto raggiungere a Roma da Cleopatra, e che quando venne assassinato Cleopatra si trovava a Roma con il suo piccolo Cesarione e fu costretta a fuggire dalla città. I casi di dimenticanza di propositi sono in genere così chiari che per il nostro scopo è poco utile ricavare indizi sul senso dell'atto mancato dalla situazione psichica. Rivolgiamoci quindi a un atto mancato che è particolarmente ricco di significati e impenetrabile, la perdita e lo smarrimento di oggetti. Il fatto che nella perdita di oggetti, un accadimento avvertito spesso così dolorosamente, saremmo noi stessi ad essere partecipi con un'intenzione non lo troverete di certo credibile. Ma esiste una gran quantità di dati tratti dall'osservazione, come questo: un giovane perde la sua matita a cui era molto affezionato. Il giorno prima aveva ricevuto da suo cognato una lettera che terminava con le parole: «Al momento non ho né voglia, né tempo di appoggiare la tua leggerezza e la tua pigrizia»8 (Da B.Dattner). La matita era proprio un regalo di questo cognato. Senza tale combinazione di circostanze naturalmente non potremmo ritenere che in questo smarrimento fosse implicata l'intenzione di disfarsi della cosa. Casi simili sono molto frequenti. Si perdono oggetti quando ci si è inimicati chi ce li ha donati e si vuole dimenticarlo, o anche quando non piacciono più e si vuole creare un preteso per sostituirli con altri migliori. Alla stessa intenzione contro un oggetto serve naturalmente anche lasciarli cadere, spezzarli, romperli. Si può ritenere casuale che uno scolaro, proprio prima del suo compleanno, perda, rovini, rompa i suoi oggetti usuali, per esempio la cartella o l'orologio? Chi ha provato abbastanza spesso la pena di non riuscire a trovare qualcosa che egli stesso ha messo da parte non vorrà credere che anche nello smarrire vi sia un'intenzione. Eppure non sono affatto rari gli esempi in cui le circostanze concomitanti dello smarrimento indicano una tendenza a mettere da canto temporaneamente o per sempre l'oggetto. Forse il miglior esempio di tal genere è il seguente. Un giovane mi racconta: «Alcuni anni fa c'erano incomprensioni nel mio matrimonio, trovavo mia moglie troppo fredda e, sebbene ne riconoscessi senz'altro le eccellenti qualità, vivevamo l'uno accanto all'altro privi di affettuosità. Un giorno lei mi portò a casa da una passeggiata un libro che aveva comprato perché poteva interessarmi. La ringraziai per questo gesto di "attenzione", promisi di leggerlo, lo riposi e non lo trovai più. Trascorsero così mesi in cui talvolta mi ricordavo di questo libro scomparso e cercavo anche inutilmente di trovarlo. Circa sei mesi dopo si ammalò la mia amata madre che non viveva con noi. Mia moglie lasciò la casa per prendersi cura di sua suocera. Lo stato della malattia era grave e diede modo a mìa moglie di mostrarsi nel suo lato migliore. Una sera tornai a casa entusiasta per ciò che mia moglie stava facendo e pieno di riconoscenza nei suoi confronti. Mi avvicinai al mio scrittoio, aprii senza una particolare intenzione, ma con una sicurezza quasi sonnambula, un determinato cassetto, e trovai per prima cosa il libro smarrito e da tanto tempo cercato». Venendo meno il motivo, ebbe fine anche lo smarrimento dell'oggetto. Signore e signori, potrei ampliare all'infinito questa raccolta di esempi. Ma non voglio farlo qui. Nel mio libro Psicopatologia della vita quotidiana (pubblicato per la prima volta nel 1901) trovate comunque una ricchissima casistica per lo studio degli atti mancati9. Da tutti questi esempi risulta sempre la stessa cosa: essi rendono verosimile che gli atti mancati abbiano un senso e vi mostrano come tale senso possa essere colto o confermato dalle circostanze concomitanti. Oggi sarò più breve perché abbiamo limitato il nostro intento allo studio di questi fenomeni al fine di trarne una preparazione per la psicoanalisi. Devo solo ancora occuparmi qui di due gruppi di fenomeni tratti dall'osservazione: gli atti mancati accumulati e combinati e i casi in cui le nostre interpretazioni siano confermate da eventi che sopraggiungono in seguito. Gli atti mancati accumulati e combinati sono di certo il fior fiore della loro specie. Se ci interessasse soltanto di dimostrare che gli atti mancati possono avere un senso, ci saremmo limitati ad essi fin dall'inizio in quanto il loro senso è evidente anche a una mente ottusa e si sa imporre al giudizio più critico. L'accumularsi delle manifestazioni tradisce un'ostinazione che non può mai accadere per caso, ma può ben addirsi a un proposito. Infine lo scambio reciproco tra singole tipologie di atti mancati ci mostra che la cosa più importante ed essenziale dell'atto mancato non è la forma o il mezzo di cui si serve, ma l'intento che persegue e che deve essere raggiunto attraverso le strade più diverse. Perciò voglio presentarvi un caso di dimenticanza ripetuta. E. Jones racconta che una volta, per motivi a lui sconosciuti, aveva lasciato sulla propria scrivania una lettera per diversi giorni. Infine si decise a spedirla, ma la ricevette indietro dal «Dead letter office» poiché aveva dimenticato di scrivere l'indirizzo. Dopo averlo scrittola portò alla posta, ma questa volta senza francobollo. A quel punto dovette ammettere la propria avversione a spedire quella lettera. In un altro caso si combinano una sbadataggine con uno smarrimento. Una signora è in viaggio verso Roma con suo cognato, un famoso artista. Egli è molto festeggiato dai tedeschi che vivono a Roma e riceve in regalo, tra l'altro, una medaglia d'oro di antica origine. La signora si di- ' Come pure nelle raccolte di A. Maeder (in francese), A.A. Brill (in inglese), J. Starke (in olandese),e altri. LEZIONE 3. GLI ATTI MANCATI {CONTINUAZIONE) 59 spiace che suo cognato non sappia apprezzare a sufficienza quel bel dono. Una volta arrivata la sorella, la signora riparte e tornata a casa scopre, nel disfare i bagagli, di aver portato con sé - non sa come - la medaglia. Lo comunica immediatamente al cognato per lettera e lo informa che avrebbe rispedito a Roma il giorno seguente l'oggetto portato via. Il giorno dopo però la medaglia è così abilmente smarrita che sembra introvabile e impossibile da spedire si fa chiaro quindi alla signora il significato della sua "distrazione", ossia di voler tenere per sé quell'oggetto10. Vi ho già riferito in precedenza un esempio di combinazione di una dimenticanza con un errore, come qualcuno una prima volta dimentichi un appuntamento e la seconda, con il proposito di non volerlo affatto dimenticare, si presenti a un'ora diversa da quella concordata. Un caso del tutto analogo mi è stato raccontato, per sua diretta esperienza, da un amico che coltiva oltre a interessi scientifici, anche interessi letterari. Egli racconta: «Alcuni anni fa accettai di essere eletto nel comitato di una certa associazione letteraria perché ritenevo che l'associazione potesse essermi utile un giorno per riuscire a mettere in scena un mio dramma; partecipai quindi, seppure senza molto interesse, alle sedute che avevano luogo ogni venerdì. Alcuni mesi dopo ricevetti la promessa da parte di un teatro a F. che il dramma sarebbe stato rappresentato e da allora mi accadde regolarmente di dimenticare le sedute dell'associazione. Quando lessi il Suo libro su queste cose, mi vergognai della mia dimenticanza, mi rimproverai di una tale meschinità per cui, non avendo più bisogno di quelle persone, mancavo alle sedute e decisi di non dimenticare assolutamente l'appuntamento il venerdì successivo. Mi ricordai costantemente di tale proposito, finché lo eseguii e mi trovai davanti alla porta della sala delle sedute. Con mio stupore era chiusa, la seduta era già finita. Infatti avevo sbagliato giorno: era sabato!». Sarebbe piuttosto interessante continuare a raccogliere simili osservazioni, ma proseguo. Voglio che possiate gettare uno sguardo su quei casi in cui la nostra interpretazione deve aspettare conferma da ciò che avviene in seguito. La condizione principale di questi casi è ovviamente che la situazione psichica del momento non ci sia nota o sia inaccessibile alla nostra conoscenza. La nostra interpretazione quindi ha solo il valore di una supposizione a cui noi stessi non vogliamo dare molto peso. In seguito però accade qualcosa che ci mostra come la nostra interpretazione già allora fosse legittima. Una volta ero ospite di una coppia di giovani sposi e udii la moglie raccontare ridendo ciò che le era capitato poco tempo prima. Il giorno dopo il ritorno dal viaggio di nozze era andata a trovare la sorella nubile per andare a fare compere insieme come ai vecchi tempi, mentre il marito usciva per gli affari suoi. Improvvisamente fu colpita dalla vista di un signore dall'altra parte della strada e gridò alla sorella spingendola: «Guarda, lì! C'è il signor L.». Aveva dimenticato che quel signore era da alcune settimane suo marito. Rabbrividii a questo racconto, ma non osai trarne le conseguenze. La vicenda mi tornò in mente solo anni dopo, quando questo matrimonio finì nel modo più infelice. A. Maeder racconta di una signora che aveva dimenticato di provare il vestito da sposa il giorno prima del matrimonio e con disperazione della sarta se ne era ricordata soltanto a tarda sera. Egli mette in relazione con questa dimenticanza il fatto che poco dopo era divorziata dal marito. Conosco una signora, ora divorziata dal marito, che negli atti di amministrazione del suo matrimonio ha firmato molte volte i documenti con il cognome da nubile, molti anni prima di riassumerlo davvero. So di altre donne che hanno perso la fede nuziale durante il viaggio di nozze, e so anche che il corso del matrimonio ha dato senso a questo fatto. E ora ancora un esempio evidente, ma con esito migliore. Si racconta di un noto chimico tedesco che il suo matrimonio non ebbe luogo perché aveva dimenticato l'ora della celebrazione e, invece di recarsi in chiesa, era andato al laboratorio. Fu così saggio da accontentarsi di quell'unico tentativo e morì celibe in tarda età. Forse anche a voi è venuto in mente che in questi esempi le azioni mancate hanno preso il posto degli omina o dei presagi degli antichi. E in effetti una parte degli omina non erano altro che atti mancati, per esempio quando qualcuno inciampava o cadeva a terra. E anche vero però che un'altra parte di essi aveva i caratteri di un accadimento oggettivo, non di un agire soggettivo. Ma non credereste quanto sia difficile a volte decidere riguardo a un determinato avvenimento se appartenga all'uno o all'altro gruppo. L'agire è capace così spesso di mascherarsi da esperienza passiva. Ognuno di noi che può richiamare alla mente un'esperienza di vita piuttosto lunga, riconoscerà probabilmente che si sarebbe risparmiato molte delusioni e dolorose sorprese se avesse trovato il coraggio e la decisione di interpretare come presagi i piccoli atti mancati verificatisi nei rapporti umani e se li avesse utilizzati come segni di intenzioni ancora tenute nascoste. Ma questo il più delle volte non si osa fare, ci sembrerebbe di tornare a essere superstiziosi per la via indiretta della scienza. Inoltre, non tutti i presagi si avverano, ma dalle nostre teorie comprenderete che non c'è bisogno che si avverino tutti. Lezione 4. Gli atti mancati {conclusione)Signore e signori, possiamo presentare il fatto che gli atti mancati abbiano un senso come il risultato degli sforzi finora compiuti e prenderlo come base delle nostre ulteriori indagini. Ancora una volta sottolineo che noi non affermiamo - né è necessario per i nostri scopi affermarlo -che ogni singolo atto mancato sia sensato, sebbene io lo ritenga verosimile. Ci è sufficiente che un tale senso sia dimostrato relativamente spesso nelle diverse forme di atto mancato. Tali forme differenti si comportano, del resto, in vario modo a tale riguardo. Nei lapsus verbali, di scrittura ecc. possono presentarsi casi con motivazione puramente fisiologica, nei tipi basati su dimenticanze (dimenticanze di nomi e di propositi, smarrimenti ecc.) non posso ritenere che la ragione sia la stessa; molto probabilmente esistono casi di perdite che devono essere riconosciute come non intenzionali; gli errori che accadono nella vita in genere soggiacciono solo per una certa parte alla nostra concezione. Vogliate tenere presenti queste limitazioni quando d'ora in poi procederemo a partire dalla tesi che gli atti mancati sono atti psichici e nascono dall'interferenza di due intenzioni. È questo il primo risultato della psicoanalisi. La psicologia finora non sapeva nulla dell'esistenza di tali interferenze e della possibilità che le stesse avessero come conseguenza fenomeni di tal genere. Abbiamo ampliato l'estensione del mondo fenomenico psichico in misura assolutamente considerevole e annesso alla psicologia fenomeni che in precedenza non erano ritenuti di sua competenza. Soffermiamoci ancora un momento sull'affermazione che gli atti mancati sono "atti psichici". Contiene qualcosa in più rispetto all'altra nostra tesi che essi hanno un senso? Credo di no, piuttosto è più indeterminata e ambigua. Tutto ciò che si può osservare nella vita psichica verrà definito per il momento come fenomeno psichico. Si tratterà di accertare se la singola manifestazione psichica provenga direttamente da influenze somatiche, organiche, materiali, nel qual caso l'indagine su di essa non spetta alla psicologia, oppure se essa derivi originariamente da altri processi psichici, dietro ai quali ha quindi inizio in qualche luogo la serie delle influenze organiche. Abbiamo presente quest'ultimo stato di cose quando definiamo un fenomeno come processo psichico e perciò è più adatto esprimere la nostra affermazione nella forma: il fenomeno è sensato, ha un senso. Con il termine senso [Sinn] noi intendiamo significato, intenzione, tendenza e posizione in una serie di connessioni psichiche. Vi è un certo numero di altri fenomeni che sono molto vicini agli atti mancati, ma ai quali non può più essere dato questo nome. Li chiamiamo azioni casuali o sintomatiche. Anche tali azioni sono caratterizzate dall'essere immotivate, non appariscenti e irrilevanti, ma oltre a ciò sono anche chiaramente superflue. Si distinguono dalle azioni mancate per l'assenza di un'altra intenzione con la quale venire in conflitto o da cui essere disturbate. D'altra parte trapassano senza limiti nei gesti e nei movimenti che consideriamo espressione dei moti dell'animo. A tali azioni casuali appartengono tutte le azioni eseguite come per gioco, apparentemente senza scopo, sui nostri vestiti, su parti del corpo, su oggetti che sono a portata di mano, così come l'omissione delle stesse e inoltre le melodie che canticchiamo tra noi. Ritengo che tutti questi fenomeni siano sensati e interpretabili allo stesso modo delle azioni mancate; si tratta di piccoli segni di altri processi psichici più importanti, atti psichici pienamente validi. Ma non intendo soffermarmi su questo ulteriore ampliamento del campo dei fenomeni psichici, vorrei tornare invece agli atti mancati che permettono di enucleare con molta più chiarezza i problemi più importanti della psicoanalisi. Gli interrogativi più interessanti che abbiamo posto a proposito degli atti mancati, e a cui non abbiamo ancora risposto, sono i seguenti: abbiamo detto che gli atti mancati sono il risultato dell'interferenza di due diverse intenzioni, di cui l'una può essere detta disturbata, l'altra distur-batrice. Le intenzioni disturbate non danno adito ad ulteriori domande, ma delle altre vogliamo sapere in primo luogo che tipo di intenzioni sono queste che appaiono nella forma di disturbo di altre; e in secondo luogo come si comportano le prime nei confronti delle seconde. Permettetemi di considerare nuovamente il lapsus verbale come rappresentante dell'intero genere e di rispondere prima alla seconda domanda. L'intenzione disturbatrice, nel lapsus verbale, può trovarsi in una relazione di contenuto con quella disturbata. In questo caso contiene una contraddizione nei suoi riguardi, una rettifica o una sua integrazione. Oppure, nel caso più oscuro e più interessante, l'intenzione disturbatrice non ha nulla a che fare dal punto di vista contenutistico con quella disturbata. Possiamo trovare facilmente prove per la prima delle due relazioni negli esempi che ci sono già noti e in casi simili. Quasi in tutti i casi di lapsus verbale in cui viene detto l'opposto, l'intenzione disturbatrice esprime il contrario di quella disturbata, l'atto mancato è la rappresentazione del conflitto tra due aspirazioni inconciliabili. «Dichiaro aperta la seduta, ma preferirei averla già chiusa» è il senso del lapsus del presidente. Un giornale politico che è stato accusato di corruzione si difende in un articolo che deve culminare nelle parole: «I nostri lettori testimo-nieranno che noi abbiamo sempre difeso il bene pubblico nel modo più disinteressato». Il redattore incaricato di scrivere la difesa scrive però: «nel modo più interessato». Ciò significa che pensa: «Così devo scrivere, ma so che non è vero». Un rappresentante del popolo che invita l'imperatore a dire la verità senza riserve [rückhaltlos] deve aver ascoltato una voce nel suo intimo che, spaventata di tale audacia, ha trasformato con un lapsus "senza riserve" in "senza spina dorsale" [rückgratlos]1. (Avvenne nel Parlamento tedesco nel novembre 1908.) Negli esempi a voi noti, i quali danno l'impressione di contrazioni e abbreviazioni, si tratta di rettifiche, aggiunte o proseguimenti con i quali una seconda tendenza si aggiunge alla prima. «Ci sono cose che sono emerse», ma dillo chiaramente che erano porcherie, dunque «Ci sono fatti che sono emerchi». «Le persone che possono capire tale argomento si contano sulle dita di una mano», ma no, in realtà ce n'è solo uno che può capirlo, quindi «si possono contare su un dito». Oppure «Mio marito può mangiare e bere ciò che vuole. Ma sapete bene, io non tollero che egli voglia qualcosa», dunque: «Egli può mangiare e bere ciò che io voglio». In tutti questi casi il lapsus verbale proviene dal contenuto dell'intenzione disturbata stessa o si collega ad esso. L'altro tipo di relazione tra le due intenzioni confliggenti suscita stupore. Se l'intenzione disturbatrice non ha nulla a che fare con il contenuto di quella disturbata, da dove proviene e da cosa dipende il fatto che si renda percepibile come elemento di disturbo proprio in quel luogo? L'osservazione, che è l'unica a poter dare una risposta, permette di riconoscere che il disturbo proviene da un processo del pensiero che aveva impegnato poco prima la persona in questione e che ora si ripercuote in tal modo nel discorso, indipendentemente dal fatto se abbia già trovato o meno espressione in esso. Il disturbo deve essere dunque definito come una risonanza, ma non necessariamente come una risonanza di parole pronunciate. Non manca anche qui un legame associativo tra ciò che disturba e ciò che è disturbato; tale connessione però non si trova nel contenuto, ma è prodotta artificialmente, spesso mediante vie di comunicazione molto forzate. Ascoltate in proposito un semplice esempio che ho osservato io stesso. Un giorno incontro nelle nostre belle Dolomiti due signore viennesi che sono vestite da escursioniste. Le accompagno per un pezzo e parliamo dei piaceri, ma anche delle fatiche dell'escursionismo. Una delle signore riconosce che tale modo di passare le giornate è per alcuni aspetti disagevole. «È vero», dice, «che non è affatto piacevole marciare sotto il sole per tutto il giorno con la giacca e la camicia completamente bagnate di sudore. A un certo punto di questa frase deve superare una piccola esitazione. Poi prosegue: «Ma poi si arriva a casa [invece di casa (Hause) dice però Hose (mutande)] e ci si può cambiare...». Non abbiamo analizzato questo lapsus, ma credo che possiate comprenderlo facilmente. La signora aveva avuto l'intenzione di fare un elenco più completo, dicendo: giacca, camicia e mutande. Tuttavia non le sembrò opportuno menzionare le mutande. Nella successiva frase, però, di contenuto del tutto indipendente dalla precedente, appare la parola che non era stata detta come deformazione della parola simile foneticamente «nach Hause». A questo punto possiamo rivolgerci all'interrogativo principale che abbiamo a lungo tenuto in serbo, ossia che tipo di intenzioni siano queste che si manifestano in modo inusuale come disturbi di altre. Ebbene, ovviamente possono essere di genere molto diverso, ma vogliamo trovare tra loro qualcosa in comune. Esaminando a tal fine una serie di esempi, le potremmo suddividere immediatamente in tre gruppi. Al primo gruppo appartengono i casi in cui la tendenza disturbatrice è nota a colui che parla ed è stata inoltre da lui percepita prima del lapsus. Così nel lapsus Vorschwein ["emerchi" nella nostra traduzione] l'autore non solo riconosce di aver giudicato come Schweinereien [porcherie] i procedimenti in questione, ma anche che aveva l'intenzione, a cui ha poi rinunciato, di esprimere tale giudizio. Un secondo gruppo è costituito da altri casi in cui la tendenza disturbatrice viene allo stesso modo riconosciuta come propria da colui che parla, ma egli non sa nulla del fatto che essa era già attiva in lui poco prima del lapsus. Accetta dunque la nostra interpretazione del suo lapsus, ma ne rimane in qualche misura stupito. Esempi di tale comportamento possono trovarsi, forse più facilmente che nel lapsus verbale, in altri tipi di atti mancati. In un terzo gruppo, l'interpretazione dell'intenzione disturbatrice è fortemente rifiutata da colui che parla. Non soltanto egli contesta che essa si agitava in lui prima del lapsus, ma vuole sostenere che gli è assolutamente estranea. Ricorderete l'esempio del "ruttare" e il rifiuto addirittura scortese che ho ricevuto dall'autore per la scoperta dell'intenzione disturbatrice. Voi sapete che non abbiamo ancora raggiunto un accordo nell'interpretazione di questi casi. Da parte mia non darei importanza all'obiezione dell'autore del brindisi e mi atterrei fermamente alla mia interpretazione, mentre voi, penso, siete impressionati dalla sua opposizione e prendete in considerazione se non si debba rinunciare all'interpretazione di tali atti mancati e conferire loro il valore di atti puramente fisiologici in senso preanalitico. Posso immaginare cosa vi spaventi. La mia interpretazione racchiude l'ipotesi che si possano manifestare in colui che parla intenzioni di cui egli non sa nulla, ma che io sono in grado di desumere dagli indizi. Di fronte a una tesi così nuova e così carica di conseguenze voi vi fermate. Lo capisco e in ciò vi do ragione. Ma chiariamo questo: se volete portare a compimento in modo coerente l'interpretazione degli atti mancati, avvalorata da così tanti esempi, dovete decidervi ad ammettere la sorprendente ipotesi appena citata. Se non ci riuscite, dovete rinunciare anche alla comprensione degli atti mancati appena acquisita. Soffermiamoci ancora su ciò che unisce i tre gruppi, su ciò che hanno in comune i tre meccanismi del lapsus. Questo è per fortuna evidente. Nei primi due gruppi la tendenza disturbatrice è riconosciuta da colui che parla. Nel primo va aggiunto che essa si è annunciata immediatamente prima del lapsus. In entrambi i casi, però, essa è stata respinta. L'oratore ha deciso di non introdurla nel discorso e quindi commette il lapsus, cioè la tendenza respinta si introduce, contro la sua volontà, in un'espressione, o modificando quella da lui ammessa, o mescolandosi con essa, o addirittura sostituendola. Questo è dunque il meccanismo del lapsus verbale. Dal mio punto di vista anche il processo del nostro terzo gruppo corrisponde perfettamente al meccanismo qui descritto. Devo solo ammettere che questi tre gruppi si distinguono per la differente forza necessaria a respingere un'intenzione. Nel primo gruppo l'intenzione è presente ed è percepibile da colui che parla prima di esprimersi; solo in seguito essa viene respinta, perciò si ricompensa con il lapsus. Nel secondo gruppo la forza respingente è maggiore, l'intenzione non è già più percepibile prima di pronunciare le parole. È singolare che questo non le impedisca in alcun modo di partecipare alla causazione del lapsus! Ma tale comportamento ci facilita la spiegazione del processo che ha luogo nel terzo gruppo. Oserò supporre che nell'atto mancato può manifestarsi anche una tendenza che è respinta da molto tempo, forse da moltissimo tempo, tendenza che non viene avvertita e perciò può essere direttamente negata da colui che parla. Ma mettete da canto il problema del terzo gruppo. Dalle osservazioni sugli altri casi dovete trarre la conclusione che la repressione dell'intenzione che si presenta di dire qualcosa è la condizione indispensabile perché si verifichi un lapsus verbale. Possiamo ora ritenere di aver fatto ulteriori progressi nella comprensione degli atti mancati. Non solo sappiamo che sono atti psichici ai quali si possono attribuire senso e intenzione, che si originano dall'interferenza di due intenzioni diverse, ma inoltre che una delle due intenzioni deve essere stata in un certo modo respinta perché non avesse compimento, per poter manifestarsi mediante il disturbo dell'altra intenzione. Deve essere stata essa stessa disturbata, prima di poter diventare disturbatrice. Con ciò non abbiamo ancora raggiunto naturalmente una completa spiegazione dei fenomeni che chiamiamo atti mancati. Vediamo emergere subito ulteriori interrogativi e intuiamo che, nel complesso, quanto più procediamo nella comprensione tanto più emergono motivi di nuove domande. Possiamo domandare ad esempio perché tutto non accada più semplicemente. Quando vi è l'intenzione di respingere una certa tendenza invece che portarla a compimento, tale spinta dovrebbe riuscire a impedire completamente che quella tendenza si esprima, o potrebbe anche fallire, nel qual caso la tendenza respinta troverebbe completa espressione. Ma gli atti mancati sono soluzioni di compromesso, essi significano una mezza riuscita e un mezzo fallimento per ognuna delle due intenzioni: l'intenzione che si trova in pericolo né viene del tutto repressa, né si impone - a prescindere dai singoli casi - completamente indenne. Possiamo immaginare che debbano essere presenti particolari condizioni perché abbia luogo una tale interferenza, o soluzione di compromesso, ma non possiamo neppure avere un'idea di che genere di condizioni possano essere. Non credo neppure che riusciremmo a scoprire questi rapporti a noi sconosciuti con un ulteriore approfondimento nello studio degli atti mancati. Sarà piuttosto necessario esplorare prima altri campi ancora oscuri della vita psichica. Solo le analogie che lì incontreremo potranno darci il coraggio di formulare quelle ipotesi che sono necessarie per una spiegazione più approfondita degli atti mancati. E ancora una cosa. Anche lavorare con piccoli indizi, come facciamo costantemente in questo campo, comporta alcuni pericoli. Esiste una malattia psichica, la paranoia combinatoria in cui l'im-piego di tali piccoli indizi viene esercitato in modo illimitato, e naturalmente io non mi impegnerò a garantire che le conclusioni fondate su tali basi siano assolutamente giuste. Da questi pericoli può difenderci solo l'ampia base delle nostre osservazioni, il ripetersi di impressioni simili nei diversi campi della vita psichica. Abbandoneremo dunque qui l'analisi degli atti mancati. Ma una cosa vorrei ancora ricordarvi: tenete a mente come modello il modo in cui abbiamo trattato questi fenomeni. Potete desumere da questo esempio quali siano gli intenti della nostra psicologia. Non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come segni di un gioco di forze che si svolge nella psiche, come espressione di tendenze orientate verso una meta, che agiscono insieme o l'una contro l'altra. Ci impegniamo a raggiungere una concezione dinamica dei fenomeni psichici. Nella nostra concezione i fenomeni percepiti devono retrocedere rispetto alle tendenze, seppure solo supposte. Non vogliamo dunque approfondire ulteriormente l'argomento degli atti mancati, ma possiamo ancora passare in rassegna l'estensione di questo ambito, nel quale ritroveremo cose note e scopriremo qualcosa di nuovo. Nel far questo ci atteniamo alla suddivisione degli atti mancati, già stabilita all'inizio, in tre gruppi: lapsus verbale, con le forme ad esso associate del lapsus di scrittura, di lettura e di ascolto; la dimenticanza con le sue sottodivisioni a seconda dell'oggetto dimenticato (nomi propri, parole straniere, propositi, impressioni) e la sbadataggine, lo smarrire, il perdere. Gli errori di cui ci occupiamo si ricollegano in parte a dimenticanze, in parte a sbadataggini. Abbiamo già trattato in modo approfondito il lapsus verbale, ma abbiamo ancora qualcosa da aggiungere. Al lapsus verbale sono legati alcuni piccoli fenomeni affettivi che non sono del tutto privi di interesse. Nessuno riconosce volentieri di aver commesso un lapsus verbale, inoltre spesso il proprio lapsus non viene udito, ma cogliamo sempre quello di un altro. Il lapsus verbale è anche in un certo senso contagioso, non è affatto facile parlare dei lapsus verbali senza commetterli. Le forme più insignificanti di lapsus verbale che non forniscono alcuna particolare spiegazione dei processi psichici nascosti non sono difficili da esaminare nella loro motivazione. Se qualcuno, ad esempio, pronuncia come breve una vocale lunga, a causa di un disturbo che subentra in questa parola per un motivo qualsiasi, subito dopo allungherà la successiva vocale breve e commetterà un nuovo lapsus per compensare il primo. Ugualmente, se una persona pronuncia in modo impreciso e con noncuranza un dittongo, ad esempio un oi come ai, cercherà di rimediare pronunciando un ai seguente come oi. In questo sembra essere determinante un riguardo nei confronti dell'ascoltatore, il quale non deve credere che a chi parla sia indifferente come tratta la lingua madre. La seconda deformazione, tesa a compensare, ha proprio l'intenzione di far notare all'ascoltatore la prima deformazione e di assicuragli che essa non è sfuggita a chi parla. I casi di lapsus verbale più frequenti, semplici e insignificanti consistono in contrazioni e presonanze, che si manifestano in parti del discorso non rilevanti. In una frase piuttosto lunga, per esempio, si può commettere un lapsus anticipando l'ultima parola di ciò che si intendeva dire. Questo dà l'impressione di una certa impazienza di finire la frase, e dimostra in generale un'avversione a pronunciare quella frase o l'intero discorso. Giungiamo così a casi limite nei quali si mescolano le differenze tra la concezione psicoanalitica e la comune concezione fisiologica. Supponiamo che in questi casi sia presente una tendenza che disturba l'intenzione del discorso, ma essa può solo manifestare la sua presenza, non la sua intenzione. Il disturbo che crea segue poi influenze fonetiche o attrazioni associative di un qualunque tipo, e può essere interpretato come uno sviamento dell'attenzione dall'intenzione del discorso. Ma né questo disturbo dell'attenzione, né le inclinazioni associative divenute attive colgono l'essenza del processo. Quest'ultima, ancora una volta, è da riferire all'esistenza di un'intenzione che disturba l'intento del discorso, la cui natura però stavolta non può essere intuita dai suoi effetti, come invece è possibile in tutti i casi di lapsus verbale meglio caratterizzati. Il lapsus di scrittura, che affrontiamo ora, concorda a tal punto con il lapsus verbale che non dobbiamo aspettarci alcun aspetto nuovo. Forse ci sarà concessa una piccola precisazione. I piccoli e tanto diffusi lapsus di scrittura, le contrazioni, le anticipazioni di parole successive, in particolare dell'ultima parola, fanno pensare ancora una volta a una generica svogliatezza nello scrivere e a un'impazienza di finire. Effetti più manifesti del lapsus di scrittura permettono di riconoscere la natura e l'intenzione della tendenza disturbatrice. In generale si sa che quando si trova un lapsus in una lettera significa che c'era qualcosa che non andava in chi scriveva, ma non si può sempre stabilire cosa si agitasse in lui. Il lapsus di scrittura spesso viene altrettanto poco notato da chi lo ha commesso quanto il lapsus verbale. Singolare è poi la seguente osservazioni: ci sono persone che hanno l'abitudine di rileggere ogni lettera che hanno scritto prima di spedirla. Altre non hanno tale abitudine, ma quando eccezionalmente lo fanno, hanno sempre modo di scoprire e di correggere un lapsus vistoso. Come si spiega ciò? Sembra quasi che tali persone sappiano di aver commesso un lapsus nello scrivere la lettera. Dobbiamo veramente crederlo? All'importanza pratica del lapsus di scrittura si collega un problema interessante. Vi ricordate forse del caso dell'assassino H che era riuscito a procurarsi da istituti scientifici colture di microbi patogeni altamente pericolosi, spacciandosi per batteriologo, e che però le usò per far fuori, in tale modo estremamente moderno, le persone a lui più vicine. Una volta quest'uomo si lamentò presso la direzione di uno di tali istituti per l'inefficacia delle colture che gli erano state spedite, ma commise un lapsus di scrittura e al posto delle parole «nei miei esperimenti su topi [Màusen] o cavie [Meerschweinchen]» si poteva leggere chiaramente «nei miei esperimenti su persone [Menschen]». Tale lapsus colpì anche i medici dell'istituto, ma, per quanto mi risulta, non ne trassero conseguenze. Ebbene, cosa pensate? I dottori non avrebbero forse dovuto ammettere il lapsus come una confessione e dare impulso a un'indagine con cui si sarebbe posto fine in tempo all'opera dell'assassino? In questo caso non è stata forse la mancanza di conoscenza della nostra concezione degli atti mancati la causa di un'omissione pratica importante? Ora, io ritengo che un tale lapsus di scrittura mi sarebbe di certo apparso come molto sospetto, ma qualcosa di importantissimo impedisce di utilizzarlo come una confessione. La cosa non è così semplice. Il lapsus di scrittura è sicuramente un indizio, ma di per sé non sarebbe stato sufficiente per aprire un'inchiesta. Il fatto che una persona sia presa dal pensiero di infettarne altre, questo è ciò che comunque il lapsus ci dice, non permette di decidere se questo pensiero abbia il valore di un chiaro proposito dannoso o di una fantasia irrilevante dal punto di vista pratico. È persino possibile che la persona che ha commesso il lapsus negherà tale fantasia con le migliori motivazioni soggettive, o la respingerà come qualcosa di assolutamente estraneo a lei. Quando, in seguito, esamineremo la differenza tra realtà psichica e realtà materiale, potremmo comprendere ancora meglio queste possibilità. Ma questo è di nuovo un caso in cui un atto mancato ha assunto successivamente un'importanza imprevista. Nel lapsus di lettura incontriamo una situazione psichica che si differenzia chiaramente dal lapsus verbale e dal lapsus di scrittura. Una delle due tendenze in concorso tra loro è qui sostituita da un impulso [Anre-gung] sensoriale e forse per questo è meno resistente. Ciò che si legge non è una produzione della propria vita psichica, come qualcosa che ci si propone di scrivere. Nella maggior parte dei casi quindi il lapsus di lettura consiste in una completa sostituzione. Si sostituisce la parola che doveva essere letta con un'altra, senza la necessità che sussista una relazione contenutistica tra il testo e l'effetto del lapsus che, di regola, si appoggia a una somiglianza di parole. L'esempio di Lichtenberg, Agamemnon invece di angenommen, è il migliore di questo gruppo. Se si vuole conoscere la tendenza disturbatrice che ha generato il lapsus, è legittimo lasciare completamente da parte il testo letto in modo errato e si può iniziare l'indagine analitica con due domande: qual è la prima idea che viene in mente in relazione all'effetto del lapsus? E in quale situazione si è verificato il lapsus? Talvolta conoscere tale situazione è sufficiente di per sé a spiegare il lapsus. Ad esempio, un tale vaga per una città sconosciuta, spinto da un certo bisogno, e legge su una grande insegna al primo piano la scritta «Klosetthaus» [Reparto gabinetti]. Ha appena il tempo di meravigliarsi che l'insegna sia posta così in alto, prima di scoprire che in realtà c'è scritto «Korsetthaus» [Reparto busti]. In altri casi proprio il lapsus di lettura, che è indipendente dal contenuto del testo, richiede un'analisi particolareggiata che non è possibile condurre senza pratica della tecnica psicoanalitica e senza fiducia in essa. Il più delle volte però è più facile giungere alla spiegazione di un lapsus di lettura. La parola sostituita tradisce senz'altro, come nell'esempio di Agamemnon, l'insieme di pensieri da cui proviene il disturbo. In questi tempi di guerra, ad esempio, accade molto spesso di leggere ovunque i nomi delle città o dei capi dell'esercito o espressioni militari che ci ronzano continuamente in testa, laddove compaia una parola simile. Ciò che ci interessa e occupa i nostri pensieri si pone così al posto della parola estranea e ancora priva di interesse. Le immagini derivate [Nach-bilder] dei pensieri offuscano le nuove percezioni. Non mancano neppure, anche nel lapsus di lettura, casi di altro genere in cui il testo di ciò che viene letto risveglia esso stesso la tendenza disturbatrice, da cui il testo il più delle volte viene trasformato nel suo contrario. Si dovrebbe leggere qualcosa di indesiderato e convincersi mediante l'analisi che un desiderio intenso di rifiuto di ciò che viene letto è responsabile della sua modificazione. Nei casi più frequenti di lapsus di lettura menzionati per primi incidono troppo poco due fattori a cui abbiamo attribuito un ruolo importante nel meccanismo degli atti mancati: il conflitto tra due tendenze e il respingere di una delle due, la quale si ricompensa con l'effetto dell'atto mancato. Non che nel lapsus di lettura si possa trovare qualcosa di contrario a questo, ma l'urgenza del contenuto di pensiero che conduce al lapsus è molto più evidente della spinta repulsiva [Zuriickdràngung] che questo può aver subito in precedenza. Proprio questi due fattori, invece, si presentano nel modo più chiaro nelle diverse situazioni di atti mancati per dimenticanza. La dimenticanza di propositi è evidente, la sua interpretazione - come abbiamo visto - non viene contestata neppure dal profano. La tendenza disturbatrice del proposito è sempre un'intenzione contraria, una non volontà, di cui ci resta solo da sapere perché non si manifesti diversamente, e in modo esplicito. Ma la presenza di tale volontà contraria è indubbia. A volte si riesce anche a intuire qualcosa dei motivi che costringono tale volontà contraria a nascondersi, e tutte le volte essa ha raggiunto il suo intento di venire allo scoperto mediante l'atto mancato, mentre sarebbe stata sicuramente respinta se si fosse presentata in forma di aperta opposizione. Se, tra il proposito e la sua esecuzione, quest'ultima dovesse essere resa impossibile a causa del subentrare di un'importante alterazione della situazione psichica, allora la dimenticanza del proposito fuoriesce dall'ambito degli atti mancati. Non c'è più ragione di meravigliarsi di averlo dimenticato e si riconosce che sarebbe stato superfluo ricordarlo, esso è venuto meno per sempre o temporaneamente. La dimenticanza di un proposito può essere chiamata atto mancato soltanto nel caso in cui ci sia impossibile credere ad un'interruzione di questo tipo. In genere i casi di dimenticanza di propositi sono così uniformi ed evidenti che proprio per questo non hanno interesse per la nostra indagine. Ma riguardo a due aspetti possiamo imparare qualcosa di nuovo dallo studio di questi atti mancati. Abbiamo detto che la dimenticanza, ovvero il mancato compimento di un proposito, indica la presenza di una volontà contraria che gli è ostile. Ciò è vero, ma va detto inoltre che la volontà contraria, secondo quanto è emerso dalle nostre ricerche, è di due generi, diretta o indiretta. Che cosa s'intenda per quest'ultima si può chiarire al meglio con uno o due esempi. Se il protettore dimentica di mettere una buona parola per il suo protetto con una terza persona, questo può accadere perché egli in realtà non è molto interessato al suo protetto e perciò non ha molta voglia di raccomandarlo. In ogni caso è così che il protetto interpreterà la dimenticanza del protettore. Ma le cose possono anche essere più complicate. La volontà contraria che si oppone, nel protettore, al compimento del proposito può anche avere un'altra origine e riguardare qualcosa di completamente diverso. Può non avere niente a che fare con il protetto, ma rivolgersi forse alla terza persona a cui è indirizzata la raccomandazione. Vedete quindi quali dubbi anche qui si oppongono all'impiego pratico della nostra interpretazione. Nonostante la giusta interpretazione della dimenticanza il protetto incorre nel pericolo di diventare troppo diffidente e di fare un grave torto al suo protettore. Oppure: se qualcuno dimentica l'appuntamento che aveva promesso a un altro e si era riproposto a se stesso, la motivazione più frequente sarà sicuramente il rifiuto di incontrarsi con questa persona. Ma in tal caso l'analisi potrebbe dimostrare che la tendenza disturbatrice non riguarda la persona, ma è rivolta al luogo in cui l'appuntamento deve avvenire, luogo che viene evitato a causa di un ricordo spiacevole ad esso legato. Oppure: se qualcuno dimentica di spedire una lettera, la tendenza contraria può basarsi sul contenuto stesso della lettera, ma non è affatto escluso che la lettera sia di per sé innocua e incorra nella tendenza contraria solo perché qualcosa di essa ricorda una lettera scritta in precedenza che offriva invece un punto di aggancio preciso alla tendenza contraria. Si può dunque dire che qui la volontà contraria si è trasferita da quella precedente lettera, in cui era giustificata, alla lettera attuale, con cui in realtà non ha nulla a che fare. Vedete dunque che nell'impiego delle nostre legittime interpretazioni si deve usare riservatezza e prudenza. Ciò che dal punto di vista psicologico è equivalente, sul piano pratico può avere molti significati. Fenomeni come questi vi sembreranno molto inusuali. Forse siete inclini a supporre che la volontà contraria "indiretta" caratterizzi di per sé il processo come patologico. Tuttavia vi posso assicurare che essa si presenta anche nell'ambito della normalità e della sanità. Non fraintendetemi, però. Non voglio in alcun modo essere io a riconoscere l'inattendibilità delle nostre interpretazioni analitiche. La menzionata molteplicità di significati della dimenticanza di propositi sussiste solo finché non abbiamo intrapreso un'analisi del caso e finché la nostra interpretazione si basa su presupposti generali. Quando eseguiamo l'analisi sulla persona in questione, ogni volta scopriamo con sufficiente certezza se si tratta di una volontà contraria diretta, o altrimenti da dove essa abbia origine. Un secondo punto è il seguente: quando nella maggioranza dei casi troviamo confermato che la dimenticanza di un proposito rinvia a una volontà contraria, troviamo il coraggio di estendere tale soluzione anche a un'altra serie di casi nei quali la persona analizzata non conferma l'esistenza della volontà contraria da noi scoperta, ma la nega. Prendete come esempi al riguardo gli accadimenti molto frequenti in cui si dimentica di restituire libri presi in prestito, di pagare conti o debiti. Saremo così audaci da rinfacciare al soggetto in questione che in lui vi è l'intenzione di tenersi i libri e di non pagare i debiti, mentre egli negherà tale intenzione, ma non sarà in grado di darci un'altra spiegazione del suo comportamento. Quindi proseguiamo dicendo che egli ha quell'intenzione, ma non ne sa nulla, e che comunque per noi è sufficiente che essa si riveli in lui mediante l'effetto della dimenticanza. Egli può ripeterci di aver proprio dimenticato. Ora riconoscete questa come una situazione in cui ci siamo già trovati in precedenza. Se vogliamo proseguire in modo coerente le nostre interpretazioni degli atti mancati, le quali si sono dimostrate più volte fondate, siamo spinti inevitabilmente ad ammettere che vi sono tendenze nell'uomo che possono essere attive in lui senza che lo sappia. Con ciò però ci mettiamo in contrasto con tutte le convenzioni dominanti nella vita e in psicologia. La dimenticanza di nomi propri e di nomi stranieri così come di parole straniere, allo stesso modo, può essere ricondotta a un'intenzione contraria che si rivolge, direttamente o indirettamente, al nome in questione. Già una volta in precedenza vi ho presentato diversi esempi di tale avversione diretta. La causazione indiretta è però qui particolarmente presente e richiede per lo più analisi accurate per poter essere accertata. Così, ad esempio, in questi tempi di guerra, che ci hanno costretto a rinunciare a tante delle inclinazioni precedenti, anche la capacità di ricordare nomi propri ha sofferto molto per i legami associativi più singolari. Poco tempo fa mi è accaduto di non riuscire a ricordare il nome dell'innocua città morava di Bisenz, e dall'analisi è risultato che non ne era responsabile un'ostilità diretta, ma la sua assonanza con il nome del Palazzo Bisenzi di Orvieto, nel quale, del resto, avevo dimorato volentieri ripetute volte. Come motivo della tendenza contraria a ricordare questo nome si presenta qui per la prima volta un principio che in seguito rivelerà la sua enorme importanza nella causazione dei sintomi nevrotici: l'avversione della memoria a ricordare qualcosa che sia legato a sensazioni spiacevoli e la cui riproduzione rinnoverebbe tale dispiacere. In quest'intenzione di evitare il dispiacere che deriva dal ricordo o da altri atti psichici, nella fuga psichica davanti al dispiacere, possiamo riconoscere la causa ultima non solo della dimenticanza di nomi, ma anche di molti altri atti mancati, come le omissioni, gli errori ecc. La dimenticanza di nomi sembra essere particolarmente agevolata dal punto di vista psico-fisiologico e si presenta quindi anche in casi in cui non è dimostrabile l'ingerenza di un motivo di dispiacere. Se una persona tende a dimenticare nomi, voi potete accertare mediante un'indagine analitica che i nomi non gli sfuggono solo perché non gli piacciono o perché gli ricordano qualcosa di spiacevole, ma anche perché lo stesso nome appartiene per lui a un altro gruppo di associazioni [Association-skreìs] con cui ha relazioni più intime. Il nome viene lì trattenuto \fest-gehalten], per così dire, e negato alle altre associazioni momentaneamente attive. Se pensate alle abilità della mnemotecnica potrete constatare con una certa sorpresa che si dimenticano nomi a causa degli stessi nessi che normalmente vengono creati intenzionalmente per evitare di dimenticarli. L'esempio più evidente di ciò è dato dai nomi propri di persona che chiaramente devono possedere una valenza molta diversa a seconda delle persone. Prendete ad esempio un nome come Teodoro. Per uno di voi non significherà nulla di particolare, per un altro è il nome del padre, del fratello, di un amico o il proprio. L'esperienza analitica vi mostrerà allora che il primo non correrà il rischio di dimenticare c»e una certa persona sconosciuta porta tale nome, mentre gli altri saranno costantemente inclini a privare l'estraneo di un nome che a loro sembra riservato a relazioni intime. Supponete ora che tale inibizione associativa possa coincidere con l'azione del principio di dispiacere e oltre a ciò con un meccanismo indiretto, sarete così in grado di farvi un'idea precisa della complessità delle cause da cui ha origine la dimenticanza temporanea di nomi. Ma un'analisi adeguata vi chiarirà completamente questa intricata situazione. La dimenticanza di impressioni ed esperienze mostra l'effetto della tendenza ad allontanare dalla memoria ciò che è spiacevole in modo ancora più chiaro ed esclusivo della dimenticanza di nomi. Naturalmente non tutte le dimenticanze di tale genere appartengono agli atti mancati, ma solo quelle che, in base alla nostra abituale esperienza, appaiono vistose e ingiustificate, dunque ad esempio quando la dimenticanza riguarda impressioni troppo fresche o importanti, o tali per cui la loro perdita apre una lacuna in un contesto altrimenti ben ricordato. Perché e come possiamo dimenticare, tra le altre, esperienze che sicuramente hanno suscitato in noi le più profonde impressioni, come gli eventi dei nostri primi anni di vita, è tutt'altro problema in cui svolge un certo ruolo la difesa contro impulsi spiacevoli, la quale comunque è ben lungi dallo spiegare tutto. È un fatto indubitabile che impressioni spiacevoli siano dimenticate facilmente. Diversi psicologi lo hanno notato e il grande Darwin ne fu impressionato al punto che stabilì la "regola aurea" di annotare con particolare cura osservazioni che sembravano particolarmente sfavorevoli alla sua teoria, poiché si era convinto che proprio queste non volessero fissarsi nella sua memoria. Chi sente parlare per la prima volta di questo principio della difesa [Abwehr] da ricordi spiacevoli mediante la dimenticanza, raramente si trattiene dal sollevare l'obiezione di aver fatto piuttosto l'esperienza che proprio ciò che è penoso è difficile da dimenticare, in quanto ritorna sempre, contro la volontà della persona, a tormentarla, ad esempio il ricordo di offese e umiliazioni. Anche questo è giusto, ma l'obiezione non corrisponde al vero. È importante che si cominci per tempo a tener conto del fatto che la vita psichica è un campo d'azione e di lotta di tendenze opposte oppure, espresso in modo non dinamico, è composta di contraddizioni e coppie di contrari. La prova che esiste una determinata tendenza non è sufficiente ad escludere l'esistenza di una tendenza ad essa contraria, c'è spazio per entrambe. Ciò che importa è solo come gli opposti si trovino l'uno rispetto all'altro e quali effetti derivino dall'uno e quali dall'altro. Il perdere e lo smarrire sono particolarmente interessanti per i loro molteplici significati, per la varietà delle tendenze dunque a cui questi atti mancati servono. Ciò che è comune a tutti i casi è che si voleva perdere qualcosa, ma diversi sono il motivo e lo scopo. Si perde una cosa quando si è rovinata, quando si ha l'intenzione di sostituirla con una migliore, quando ha smesso di essere cara, quando proviene da una persona con la quale i rapporti si sono deteriorati, o quando se ne è entrati in possesso in circostanze che si vogliono dimenticare. Allo stesso scopo può servire il lasciar cadere, il danneggiare, il rompere l'oggetto. Nella vita sociale si è osservato che i figli non voluti e illegittimi sono notevolmente più gracili di quelli concepiti legittimamente. Per un tale risultato non è necessaria la tecnica grezza delle cosiddette fabbricanti di angeli: una certa trascuratezza nella cura del bambino è pienamente sufficiente. Per quanto riguarda la custodia degli oggetti, le cose potrebbero andare come per i bambini. Ma determinate cose possono essere destinate alla perdita senza che il loro valore sia stato diminuito, quando vi è l'intenzione di sacrificare qualcosa al destino per evitare un'altra perdita che si teme. Secondo quanto è affermato dall'analisi, tali scongiuri contro il destino sono ancora molto frequenti tra noi, i nostri smarrimenti sono perciò spesso un sacrificio volontario. Lo smarrimento può anche servire per un dispetto o per l'autopunizione. In breve, sono innumerevoli le motivazioni più remote della tendenza a perdere una cosa per allontanarla da sé. La sbadataggine [Vergreifein], come altri errori, è usata spesso per appagare desideri che ci si deve negare. L'intenzione si maschera qui da caso fortuito. Così, ad esempio, come è accaduto a un nostro amico, può succedere che, chiaramente controvoglia, si debba andare a fare una visita in treno nelle vicinanze della città, e alla stazione in cui si deve cambiare treno si salga per errore su quello che ci riporta in città. Oppure, quando in un viaggio si vorrebbe fare assolutamente una sosta più lunga in una stazione intermedia, ma non è possibile a causa di determinati impegni, può accadere che si ignori o si perda una certa coincidenza, per cui si è costretti all'interruzione desiderata del viaggio. O anche come è accaduto a uno dei miei pazienti a cui avevo proibito di chiamare per telefono la sua innamorata, il quale, però, volendo telefonare a me, richiese "erroneamente" e "sovrappensiero" un numero sbagliato e si trovò improvvisamente collegato con la ragazza. Un bel esempio di sbadataggine diretta, anche importante in pratica, è dato dall'osservazione di un tecnico che racconta cosa era accaduto prima del danneggiamento di un oggetto. «Qualche tempo fa lavoravo con diversi colleghi a una serie di complicati esperimenti sull'elasticità nel laboratorio del Politecnico, un lavoro che avevamo intrapreso volontariamente, ma che iniziava a prendere più tempo di quanto ci aspettassimo. Una volta, andando in laboratorio col mio collega F., egli mi disse quanto fosse spiacevole per lui perdere così tanto tempo proprio quel giorno che aveva molte altre cose da fare a casa. Non potevo che essere d'accordo con lui e aggiunsi, quasi scherzando, alludendo a un episodio avvenuto la settimana precedente: "Speriamo che la macchina si inceppi di nuovo così possiamo interrompere il lavoro e andare via prima!". Nella suddivisione del lavoro al collega F. viene assegnato il compito di manovrare la valvola della pressa, cioè deve lasciar entrare lentamente il liquido della pressione nel cilindro della pressa idraulica dall'accumulatore, aprendo attentamente la valvola. Il direttore dell'esperimento controlla il manometro e quando è raggiunta la pressione giusta, grida: Alt!". A questo comando F. afferra la valvola e la gira con tutta la forza verso sinistra (tutte le valvole senza eccezione si chiudono girando verso destra!). Perciò l'intera pressione dell'accumulatore ricade sulla pressa e> siccome la tubatura non è predisposta per sostenerla, immediatamente un raccordo scoppia. Un guasto tecnico del tutto innocente ci costringe tuttavia a sospendere il lavoro per quel giorno e ad andare a casa. È singolare, tra l'altro, che qualche tempo dopo, parlando di questo incidente, l'amico F. non volle ricordarsi assolutamente della mia osservazione, che io però ricordavo perfettamente». A partire da questo potete giungere a supporre che non sia sempre il caso innocente a trasformare le mani del personale domestico in nemici così pericolosi degli oggetti della vostra casa. Vi potete anche porre l'interrogativo se quando uno si ferisce e mette in pericolo la sua integrità sia sempre un caso. Si tratta di impulsi di cui potrete attestare il valore sulla base di volta in volta delle analisi ricavate dalle vostre osservazioni. Egregi ascoltatori, questo è lungi dall'essere tutto quello che ci sarebbe da dire sugli atti mancati. Vi è ancora molto da ricercare e da discutere. Ma sarei contento se le discussioni fin qui svolte fossero riuscite in qualche modo a scuotere le opinioni che finora avete avuto, e a prepararvi ad accoglierne di nuove. Per il resto mi accontento di lasciarvi davanti a uno stato di cose non chiarito. Lo studio degli atti mancati non ci permette di dimostrare tutte le nostre tesi e inoltre per nessuna delle nostre dimostrazioni questo materiale rappresenta la nostra unica risorsa. Il grande valore degli atti mancati per i nostri scopi consiste nel fatto che sono fenomeni molto frequenti e facilmente osservabili anche sulla propria persona, fenomeni la cui comparsa non presuppone assolutamente uno stato morboso. In conclusione vorrei ritornare su una delle vostre domande che non hanno ricevuto risposta: se gli uomini, come abbiamo visto in molti esempi, si avvicinano così tanto alla comprensione degli atti mancati e si comportano spesso come se ne intuissero il senso, come è possibile che essi possano far passare gli stessi fenomeni in generale come casuali, privi di senso e di importanza, e possano opporsi così fortemente alla loro spiegazione psicoanalitica? Avete ragione, è una cosa singolare e richiede una spiegazione. Ma non ve la darò, vi condurrò invece lentamente a scorgere i nessi a partire dai quali la spiegazione s'imporrà senza il mio intervento. |